Gli sportivi professionisti, al contrario di quanto si è portati a pensare, non sempre conoscono tutte le norme degli sport che praticano
Ha destato curiosità, un paio di settimane or sono, una dichiarazione dell’ex direttore di gara Irrati, secondo cui ‘De Rossi sarebbe stato un grande arbitro, conosceva il regolamento alla perfezione, quasi ti metteva in difficoltà’.
Ma come? Per un giocatore professionista non dovrebbe essere normale sapere le norme che regolano il suo sport? Certo, ma nella maggior parte dei casi non è così: la conoscenza delle leggi del settore rilevata fra i calciatori è invero assai scarsa. Lo avevano del resto dimostrato anche Le Iene qualche anno fa, quando interrogarono diversi famosi giocatori e fecero far loro magra figura.
In qualsiasi altra professione l’ignoranza delle regole sarebbe ritenuta pecca gravissima, mentre nello sport - benché in ballo ci siano spesso gerle di milioni - nessuno pare preoccuparsene troppo. L’importante – sembra – è che a conoscerle sia l’arbitro, chiamato a farle rispettare e a punire, più o meno gravemente, chi le trasgredisce.
Alcune norme, va detto, i giocatori le disattendono semplicemente perché nessun arbitro le applica più dai tempi di Noè: tre giorni fa, ad esempio, il portiere Huuhtanen dell’Inter Turku – campionato finlandese – è stato punito con un calcio indiretto in area (da cui è poi scaturito un gol) per aver trattenuto il pallone più di sei secondi. L’ultima volta che vidi fischiare una cosa simile giocavo negli allievi B del Chiasso, mille anni fa, dopodiché, come tutti, credevo fosse stata abolita.
Altro esempio di regola disconosciuta fu quella – sciagurata – del golden goal, in vigore per pochi disgraziati anni a cavallo dei due millenni: alcuni giocatori, anche a livelli altissimi, non capivano che la partita sarebbe terminata alla prima rete segnata (o subita) nei supplementari, e trasalivano udendo l’arbitro fischiare tre volte invece di indicare il centrocampo dopo che la sfera aveva gonfiato la rete.
Ancor più surreale, restando nel mondo del pallone, è vedere i calciatori che – al contrario di quanto detto finora – si mettono in testa di dover per forza rispettare regole che... nemmeno esistono! E lo fanno con inaspettato (oltre che ingiustificato) zelo. Durante gli ultimi Mondiali in Qatar ad esempio, quando segnavano un gol e in massa i giocatori uscivano dal rettangolo verde per esultare, molte squadre ordinavano a un uomo di non unirsi agli abbracci e di restare invece nella metà campo rivale – come a presidiarla – perché ciò avrebbe secondo loro impedito agli avversari di riprendere il gioco mentre la formazione andata in rete stava ancora festeggiando.
Regola del tutto immaginaria, come mi conferma Francesco Bianchi, ex referee e per decenni responsabile dei direttori di gara svizzeri ed europei: «Dopo un gol, il gioco può riprendere soltanto se tutti i giocatori sono ritornati nella propria metà di campo, e dopo il fischio dell’arbitro». Altre norme apocrife? «Mi ha sempre lasciato secco », risponde senza doverci pensare nemmeno troppo, «vedere un difensore varcare volontariamente la linea di fondo, convinto così facendo di lasciare in fuorigioco un avversario: non capisco come facciano a diffondersi certe leggende».
Una certa superficialità, ad ogni modo, non è prerogativa del solo football. Nel basket Nba, ad esempio, si vedono sempre più giocatori sinceramente stupirsi quando, dopo aver mosso entrambi i piedi 3-4 volte senza palleggiare, vengono loro giustamente fischiati i passi.
Nel tennis invece, all’ultimo Australian Open, ricordiamo tutti la statunitense Collins esultare – sicura di aver vinto – dopo aver messo a segno il punto del 7-3 nel tie break del terzo set contro la ceca Muchova.
Ma il match - le spiegò il giudice - non era finito e doveva continuare perché già da un paio d’anni nei tornei dello Slam era stato introdotto il super tie break, dove si vince a quota 10 punti e non più a quota 7. Danielle Collins, che all’epoca era numero 7 al mondo – mica una dilettante – ammise candidamente di non aver mai sentito parlare di quella regola, che definì una stravaganza.