Giocati sotto la minaccia di attentati, gli Europei in Francia nel 2016 vennero vinti dal Portogallo malgrado il forfait in finale del suo capitano
Per qualche tempo, all’inizio del 2016, si era temuto che l’Europeo di calcio in programma l’estate seguente in Francia dovesse essere giocato a porte chiuse, o che addirittura venisse spostato altrove. Colpa degli attentati di matrice islamista, che nel corso degli ultimi due anni avevano martoriato il Paese, l’intero continente e che, ormai, terrorizzavano un po’ chiunque. L’anno precedente, dapprima con l’assalto alla sede di Charlie Hebdo – che fece una dozzina di vittime – e poi con la carneficina del Bataclan (130 morti), Parigi aveva vissuto i suoi peggiori incubi dai tempi della Seconda guerra mondiale, e tutti avevano paura che una grande manifestazione sportiva, col suo enorme richiamo di pubblico, sarebbe stato il terreno ideale per chi avesse avuto intenzione di compiere altre stragi. Tanto più che, nel mese di marzo a Bruxelles – dunque non troppo lontano – l’Isis aveva di nuovo colpito, seminando la morte in aeroporto e in una stazione (un’altra quarantina di vite spezzate). L’intera Europa era – comprensibilmente – caduta nella paranoia, ed era inevitabile pensare che, in concomitanza del torneo, si sarebbe scatenato un nuovo inferno. Alla fine, anche per non lanciare ai terroristi un segnale di resa, si decise di giocare ugualmente, a patto che il dispositivo di sicurezza venisse ulteriormente rafforzato. È dunque in questo clima di estrema tensione che le squadre – passate per la prima volta da 16 a 24 – si apprestarono a scendere in campo per la quindicesima edizione della kermesse continentale, che l’Hexagone organizzava per la terza volta dopo quelle del 1960 e del 1984.
Fra le prescelte c’era anche la Svizzera, alla sua quarta partecipazione, che prima di essere eliminata ai rigori dalla Polonia negli ottavi di finale, aveva chiuso al secondo posto il proprio girone grazie ai pareggi con Francia e Romania e al successo sull’Albania, in una partita assai delicata e dalle mille implicazioni. A vestire la maglia elvetica c’erano infatti diversi giocatori di sangue albanese – Tarashaj, Behrami, Shaqiri, Mehmedi e Dzemaili – mentre nella squadra dell’aquila bicipite figuravano non pochi atleti nati o cresciuti in Svizzera e detentori del passaporto rossocrociato (Abrashi, Kukeli, Lenjani, Veseli, Basha, Gashi, Aliji e Ajeti). Il caso più clamoroso, ad ogni modo, fu quello dei fratelli Xhaka, che in campo scesero addirittura da avversari. Granit giocava infatti per la Svizzera, mentre Taulant difendeva il vessillo albanese: una circostanza che nel nostro Paese fece discutere a lungo – e animatamente – tifosi, giornalisti e ovviamente esponenti politici, che a prescindere da dove sedessero nell’emiciclo colsero la palla al balzo per sfruttare a proprio favore il caso dei due fratelli basilesi militanti in schieramenti opposti.
Curiosa, nell’edizione del 2016, fu pure la contemporanea presenza alla fase finale di entrambe le Irlande, ambedue capaci di superare la prima fase fra le migliori terze: l’Eire fu poi estromessa agli ottavi dalla Francia, mentre a far fuori la cugina del Nord – sempre negli ottavi – fu invece, in un derby epico, il Galles, vale a dire l’autentica sorpresa di quel torneo. I gallesi, vincitori del proprio gruppo davanti nientemeno che all’Inghilterra, riuscirono in seguito a superare anche i quarti di finale – dove strapazzarono il Belgio che figurava fra i favoriti per il successo finale – e si arresero soltanto in semifinale, sconfitti dal Portogallo che poi il torneo lo vinse davvero.
A destare ottima impressione in Francia furono pure gli islandesi – esordienti a certi livelli –, che nella fase a gruppi seppero fare meglio del Portogallo, mentre nel mata mata si resero addirittura giustizieri degli inglesi prima di inchinarsi, nei quarti, ai Galletti padroni di casa. Ai critici, i vichinghi lasciarono il ricordo di un’ottima squadra, molto ben organizzata, mentre ai tifosi di tutto il mondo regalarono il geyser sound, canto celebrativo condiviso da giocatori e supporter poi divenuto celebre ovunque, adottato non solo negli stadi calcistici ma anche in qualche pista di hockey.
Tifosi felici furono pure quelli tedeschi, che per la prima volta poterono festeggiare una vittoria sull’Italia in una grande manifestazione: in un secolo di pallone, infatti, non era mai successo. La Mannschaft ci riuscì, nei quarti di finale, soltanto dopo supplementari e tiri dal dischetto. Il verdetto fu emesso soltanto dopo che le due squadre ebbero calciato ben nove rigori a testa: i tedeschi ne sbagliarono ‘soltanto’ tre, mentre gli Azzurri fallirono ben quattro volte, fra le quali vi furono due esecuzioni capaci di passare alla storia per la loro bruttezza incomparabile. Pellé, dopo aver reiteratamente avvisato Neuer che lo avrebbe superato con un ‘cucchiaio’, spedì il pallone sul fondo, a lato del palo, mentre Zaza – dopo essersi prodotto in una rincorsa infinita e fitta di saltelli inutili – mandò il cuoio a sorvolare abbondantemente la traversa.
Ad alzare il trofeo a Saint-Denis, il 10 luglio, fu come detto il Portogallo, che alla vigilia della finale non godeva certo del favore dei pronostici: innanzitutto perché gli toccava affrontare la Francia che giocava in casa e veniva da tre convincenti successi nella fase eliminatoria (contro Eire, Islanda e Germania), e poi perché i lusitani – al contrario degli uomini di Deschamps – avevano disputato un torneo sottotono, senza acuti, ed erano arrivati all’atto conclusivo soltanto grazie alla buona sorte. Chiuso al terzo posto il girone dietro Ungheria e Islanda dopo tre pareggi, gli uomini del Ct Fernando Santos erano infatti passati agli ottavi soltanto come ripescati (fra le migliori terze), e poi erano andati avanti a forza di botte di fortuna: batterono la Croazia ai supplementari (gol di Quaresma al 117’), la Polonia soltanto ai rigori e solo in semifinale colsero l’unica vittoria entro i tempi regolamentari di tutto il loro torneo.
Come contrappasso in cambio di tanta fortuna, il Portogallo dovette pagare sulla pelle di Cristiano Ronaldo che – benché fosse nel punto più alto della propria carriera – in quell’Europeo non fu certo protagonista come tutti i suoi tifosi avevano sperato. A secco di gol con Islanda e Austria, seppe esser determinante con una doppietta soltanto nel 3-3 al cospetto dei magiari. In seguito, deluse con croati e polacchi e segnò soltanto un’altra rete, nel 2-0 con cui il Portogallo batté il Galles nel penultimo atto. E in finale, addirittura, fu costretto a lasciare il campo per infortunio dopo soltanto una ventina di minuti.
I lusitani, dunque, paradossalmente vinsero il loro unico grande trofeo senza l’aiuto del miglior giocatore che abbiano mai avuto, nonché uno dei più forti dell’intera storia del calcio. Ma, forse, a rendere possibile quel successo continentale fu proprio il forfait di CR7: rimasti orfani del loro capitano e del giocatore verso cui facevano confluire ogni singolo pallone, i portoghesi impararono in quei minuti a responsabilizzare maggiormente se stessi e a non dover per forza dipendere dalla classe – ma anche dalle paturnie – di una primadonna come Cristiano Ronaldo, che ogni tanto risultava fin troppo ingombrante. Ah, ovviamente, anche stavolta il Portogallo si impose soltanto nei tempi supplementari.
Durante il torneo, l’Isis rispettò una specie di tregua ed evitò di attaccare di nuovo, ma soltanto a Parigi: il 12 giugno, infatti, fece 50 morti a Orlando, in Florida, mentre il 28 ne fece 48 a Istanbul. E poi, appena tre giorni dopo la fine dei Campionati europei, tornò a colpire anche in Francia: il 14 luglio, giorno della Festa nazionale, l’attentato sul lungomare di Nizza lasciò sul terreno quasi 90 vittime e 500 feriti.
Questa è la quindicesima di sedici puntate sulla storia degli Europei di calcio che ci accompagnerà fino alla vigilia di Germania 2024.