L’Europeo casalingo del 2008, vinto dalla Spagna di Aragonés, fu per la Svizzera deludente, ma fu una felice tappa nella carriera dell'arbitro ticinese
Nel corso della primavera 2008, svizzeri e austriaci erano in attesa del più importante evento sportivo che fosse loro mai capitato di ospitare, vale a dire il Campionato europeo di calcio, che avevano avuto l’incarico di organizzare congiuntamente e che si preannunciava come un grande successo.
Nel resto del continente, e un po’ ovunque nel resto del pianeta, le preoccupazioni vertevano però altrove. Erano infatti la politica, e soprattutto l’economia, a occupare i pensieri di tutti. Il governo provvisorio del Kosovo, ad esempio, proclamava la propria indipendenza dalla Serbia, spaccando il mondo tra favorevoli e contrari, fra chi cioè salutava con gioia la mossa e chi non aveva invece la minima intenzione di riconoscere la secessione. Al di là dell’Atlantico, intanto, gli Stati Uniti stavano preparando l’elezione del loro primo presidente di colore, mentre dopo mezzo secolo di regno incontrastato su Cuba, Fidel Castro abdicava in favore del fratello Raúl.
A livello finanziario, invece, venivano al pettine tutti i nodi di una spregiudicata gestione degli investimenti, e a causa della bolla immobiliare statunitense, della crisi dei subprime e del fallimento di Lehman Brothers, le borse mondiali iniziavano a perdere l’impossibile e il mondo veniva travolto dalla peggior crisi economica degli ultimi 80 anni. Senza dimenticare l’aumento record del prezzo del petrolio, che nel nostro Paese faceva per la prima volta superare alla benzina la soglia dei 2 franchi al litro.
La Svizzera, per la verità, al contrario dell’Austria non era al debutto nell’organizzazione di grandi manifestazioni: nel 1954 aveva infatti ospitato addirittura i Mondiali, ma quella era un’epoca ancora pionieristica e l’evento – per quanto importante – non aveva nulla a che vedere con la grandiosità delle kermesse del XXI secolo. Il compito fu comunque svolto al meglio: le due nazioni alpine, ammirate per puntualità e precisione, furono degne della loro fama e apparecchiarono un torneo esemplare, con stadi nuovi e comodi, e una perfetta organizzazione.
A deludere furono però le loro due squadre, che nemmeno seppero superare il primo turno. Austria e Svizzera infatti, forse timorose di disturbare, fecero di tutto per togliersi di mezzo prima possibile. Gli austriaci – inseriti nel girone di Croazia, Germania e Polonia – addirittura chiusero le prime tre partite conquistando 1 solo punto. Gli svizzeri invece ne misero insieme 3, ma nella sostanza cambia poco, perché l’unico successo dei rossocrociati giunse quando ormai tutto era già compromesso e le speranze di qualificazione si erano già spente da un pezzo. Peggio di loro seppe fare solo la Grecia campione in carica, che terminò a quota zero.
Sorteggiati con Portogallo, Turchia e Repubblica Ceca, gli elvetici avrebbero potuto ottenere di più, anche perché al vantaggio del campo amico poteva sommare una rosa di qualità: Senderos, Lichtsteiner, Behrami, Inler, Alex Frei, Hakan Yakin e Patrick Müller non erano certo giocatori banali, tutt’altro. Il grande limite di quella squadra stava nel manico, e cioè nel selezionatore Köbi Kuhn, che aveva avuto una grande carriera in campo, ma che da tecnico mancava di esperienze significative. Alla guida della Nati era riuscito a cogliere due qualificazioni agli Europei del 2004 e ai Mondiali del 2006, ok, ma poi in quei tornei non aveva combinato nulla di buono. Soprattutto in Germania aveva dato prova evidente di scarsa lucidità nella gestione delle partite: basti dire che nell’ottavo di finale contro l’Ucraina, sullo 0-0 al 118’, aveva tolto dal campo Alex Frei, il capocannoniere storico della Nazionale e il suo miglior rigorista. Tafazzi, in confronto, era un dilettante. E infatti la Svizzera fu puntualmente sconfitta ai tiri dal dischetto. Roba che, ovunque, avrebbe provocato l’immediato licenziamento del Ct: a Berna, invece, pensarono bene di premiare Kuhn prolungandogli il contratto di altri due anni.
Il risultato fu che, nelle tre gare di Euro 2008, tutte giocate al Sankt Jakob, i rossocrociati vennero superati dai Cechi (1-0), dalla Turchia in rimonta (2-1) per poi cogliere una vittoria del tutto inutile contro un Portogallo già qualificato e per nulla intenzionato a stancarsi senza alcun motivo. Kuhn, che durante il torneo dovette oltretutto fare i conti col precario stato di salute della moglie, si congedò dal pubblico di Basilea fra gli applausi, dovuti più per solidarietà che per quanto aveva raccolto durante il suo settennale mandato.
Visti i deludenti risultati della squadra, si può dire che lo svizzero meglio comportatosi nell’Europeo casalingo fu il ticinese Massimo Busacca, che all’epoca stava completando il percorso che lo avrebbe portato a diventare il migliore arbitro in circolazione. Internazionale da quando aveva soltanto 30 anni, grazie alle sue capacità e alla sua personalità era cresciuto fino a meritarsi la designazione come quarto uomo nella finale di Champions del 2002, quella in cui Zidane segnò il suo gol più bello, un memorabile sinistro all’incrocio che lasciò di sasso il portiere del Leverkusen e tutti gli appassionati di pallone. E poi, negli anni, aveva ricevuto molti altri onori: aveva diretto tre gare al Mondiale 2006, la finale di Coppa Uefa dell’anno successivo e a Euro 2008 aveva arbitrato altri tre incontri, fra cui la semifinale fra Germania e Turchia. Ancora non lo sapeva, ma nel 2009 – quando gli sarà affidata la direzione della finale di Champions fra Barcellona e Manchester United – sarebbe stato pure premiato come miglior fischietto del mondo.
A disputare un grande torneo furono pure Russia e Turchia, outsider capaci – contro tutti i pronostici – di avanzare fino alle semifinali. I russi di Arshavin e Pavlyuchenko, che avevano chiuso la prima fase dietro la Spagna e davanti a Svezia e Grecia, nei quarti di finale superarono poi 3-1 l’Olanda che veniva indicata come probabile vincitrice della manifestazione, mentre nel penultimo atto vennero demoliti 3-0 dalla Spagna che la coppa finì per alzarla davvero. I turchi invece vinsero insieme al Portogallo il gruppo della Svizzera e poi batterono ai rigori una Croazia talentuosa ma ancora un po’ acerba, che non seppe reggere la pressione e dal dischetto sbagliò tre volte su quattro (fallì anche un giovane Modric). In semifinale, invece, gli uomini diretti dall’Imperatore Fatih Terim – che come Ct possedeva tutto ciò che mancava a Kuhn – si arresero alla Germania solo al 90’, quando Philipp Lahm segnò il gol che li condannò (3-2).
A laurearsi campioni continentali battendo in finale 1-0 la Germania furono come detto gli spagnoli, che con quel trionfo – che mancava dal 1964, anno del fin lì unico successo iberico di prestigio – inaugurarono una stagione memorabile di vittorie e di novità tattiche capaci di fare scuola un po’ ovunque. Artefice di quella rivoluzione copernicana fu il tecnico Luis Aragonés, che da giocatore fu icona dell’Atletico Madrid e che poi, da allenatore, seppe fare miracoli in una piccola piazza come Maiorca, dove svezzò un campione come Samuel Eto’o e dove riuscì a qualificare la squadra alla Champions League. Avuta in affidamento la Nazionale, per causa di forza maggiore – assenza contemporanea di Villa e Torres – El Sabio proprio si inventò un calcio che si adattava alla perfezione ai suoi giocatori, molto tecnici ma fisicamente troppo leggeri. E in una gara in Danimarca, con una sola punta davanti a Fabregas, Iniesta e Xavi, le Furie rosse seppero mandare in gol il difensore Sergio Ramos dopo addirittura 65 passaggi consecutivi: era nato il tiqui taca, di cui più tardi il Barcellona, impropriamente, si assunse la paternità.
Questa è la tredicesima di sedici puntate sulla storia degli Europei di calcio che ci accompagnerà fino alla vigilia di Germania 2024.