Nella prima puntata della retrospettiva sui Campionati europei di calcio – dedicata all'edizione del 1960 – ricordiamo Henri Delaunay e Vitkor Ponedelnik
Quando finalmente il torneo continentale poté prendere il via, erano già passati cinque anni dalla morte dell’uomo che fortemente lo aveva voluto. Per una vita intera, infatti, l’ex arbitro Henri Delaunay aveva sognato di regalare al Vecchio continente una manifestazione che potesse catturare l’entusiasmo delle folle e l’interesse della stampa proprio come succedeva da moltissimo tempo al di là dell’Atlantico, dove la Copa América esisteva già dal 1916. Da segretario della Federazione francese e poi da membro della Fifa, Delaunay già negli anni Venti era andato perorando questa causa. Ma ristrettezze finanziarie, guerre mondiali e cortina di ferro avevano sempre impedito al suo sogno di realizzarsi.
E così fu soltanto nel 1954 – col nuovo clima disteso che si respirava (almeno) in campo sportivo, ma soprattutto con la creazione della Uefa – che la sua vecchia idea poté infine prendere forma. Come primo segretario generale del governo continentale del calcio, Delaunay – classe 1883 – fece appena in tempo a ratificare la costituzione del Campionato Europeo prima di morire serenamente nel 1955. Al vecchio dirigente visionario – come doveroso omaggio – venne intitolato il trofeo, che fu assegnato per la prima volta nell’estate del 1960. Ad alzarlo al cielo il 10 luglio al Parc des Princes di Parigi fu il capitano sovietico Igor Netto, condottiero di una squadra di semisconosciuti, fatta eccezione per se stesso e per il divino Yashin, che come lui giocava ai massimi livelli anche a hockey su ghiaccio, oltre che a pallone.
La fase finale del torneo, a cui ebbero accesso solo quattro formazioni (contro le ventiquattro del giorno d’oggi), durò soltanto cinque giorni, e l’unico altro stadio utilizzato oltre a quello parigino fu il Velodrome di Marsiglia. La kermesse, per la verità, veniva guardata ovunque con grande sospetto, anche perché nessuno ancora ne aveva intuito le potenzialità di sviluppo, né a livello agonistico né dal punto di vista pecuniario. Tanto che – e oggi pare una cosa nemmeno vagamente immaginabile – grandi nazioni calcistiche come Inghilterra, Germania Ovest e Italia neanche si degnarono di prender parte alla fase eliminatoria: semplicemente declinarono l’invito e si godettero le vacanze estive senza strani pensieri come quello di dover partecipare a una fastidiosa nuova manifestazione che non prometteva nulla di buono.
Quanto ai sovietici, dopo aver facilmente eliminato negli ottavi ciò che restava dell’Ungheria delle meraviglie – che per tutti gli anni Cinquanta aveva mostrato prodigi ovunque nel mondo – trovarono spianata la strada per la Francia senza nemmeno dover disputare i quarti di finale. La Spagna franchista e fascista, infatti, si era rifiutata di recarsi a giocare la gara di andata nella capitale mondiale del comunismo, e così aveva rimediato una doppia sconfitta a tavolino. Erano tempi in cui le ideologie contavano eccome, e i boicottaggi - anche nel mondo dello sport – erano all’ordine del giorno.
A sfidare l’Urss nell’atto conclusivo fu la Jugoslavia, che in semifinale aveva fatto fuori i francesi padroni di casa con un 5-4 più che rocambolesco. I sovietici invece avevano spazzato via la Cecoslovacchia con un rotondo 3-0. La finale si rivelò equilibrata, col vantaggio slavo firmato da Galic subito vanificato da Metreveli. Novanta minuti, però, non furono sufficienti per decretare un vincitore, e quindi fu necessario disputare i supplementari. A una manciata di minuti dal termine, quando tutti ormai stavano pensando seriamente che la partita fosse da rigiocare (secondo la prassi in vigore in quell’epoca remota), un giovane centravanti di Rostov sul Don incornò in rete un perfetto traversone dell’ala mancina Meskhi e si guadagnò in quel modo un posto nella storia del calcio. Viktor Vladimirovic Ponedelnik, 23 anni, quella piovosa domenica sera divenne all’improvviso un eroe nazionale per aver dato lustro, con la sua impresa, alla gloria dell’Unione Sovietica. Oltretutto, la sua rete giunse quando a Mosca, per via del fuso orario, la mezzanotte era già scoccata da un bel pezzo. Dunque, era già lunedì. E quel giorno della settimana, nella lingua di Tolstoj, si dice proprio… ponedelnik!
Un segno del destino che col tempo contribuirà ad alimentare ulteriormente la leggenda di questo attaccante, fra l’altro già autore di un gol nella semifinale. Ponedelnik, come spesso capita agli eroi giovani e belli, pagherà purtroppo la fama e il successo personale con una cospicua dose di scarogna. Dovette infatti abbandonare il gioco, per le complicazioni di un’appendicite e per un inesorabile aumento di peso, quando aveva soltanto 29 anni, dopo aver disputato però un’altra finale europea per nazioni (nel 1964). Potremmo definirlo dunque – per la sfortuna e il prematuro ritiro dai palcoscenici – una specie di Van Basten del Don. Le sue cifre, infatti, sono quelle di un goleador di razza: con la casacca della selezione sovietica mise a segno la bellezza di 20 gol (3 agli Europei e 2 ai Mondiali) in sole 29 partite, mentre nel massimo campionato russo gonfiò la rete oltre 130 volte in poco più di 200 gare disputate. Appese le scarpe bullonate al fatidico chiodo, si dedicò al giornalismo come già aveva fatto suo padre, ed ebbe modo di lavorare nelle più prestigiose redazioni russe. Divenne infatti una firma autorevole sui quotidiani e sui settimanali sportivi più letti del suo Paese, trovando pure il tempo per vergare ben quattro libri dedicati al calcio.
Ma anche la politica richiese i suoi servigi: dal 1992, dopo il ribaltone epocale verificatosi al di là della Cortina, Ponedelnik venne infatti nominato consigliere del presidente della Confederazione Russa e poté mettere la propria grande esperienza al servizio di personaggi - per quanto discutibili – del calibro di Boris Yeltsin, Vladimir Putin e Vladimir Medvedev. Negli ultimi anni, aveva più volte denunciato il fatto che ai vecchi tempi dell’Unione Sovietica non ci fosse alcun riguardo, da parte delle istituzioni, per le vecchie glorie sportive, che tanto avevano fatto in termini di propaganda per il regime. Fra i suoi compagni della trionfale notte di Parigi del 1960, infatti, qualcuno aveva fatto una misera fine, con pochi soldi in tasca e molto alcol scadente nelle vene. Un disinteresse di cui fu vittima anche sua maestà Lev Yashin, il portiere più leggendario di quel calcio antico. Qualcuno - giustamente - aveva provato a chiedere a Ponedelnik perché non si fosse mai sognato di scoperchiare il vaso con qualche anno d’anticipo, cioè quando lui di quel sistema era parte integrante. La risposta fu fin troppo facile, addirittura ovvia: pure lui teneva (numerosa) famiglia, giustificazione valida del resto in ogni tempo e sotto ogni ordinamento politico.
Fino a 80 anni suonati, Viktor Ponedelnik – nato nel 1937 e scomparso nel dicembre del 2020 – accompagnava pletore di nipoti e pronipoti a vedere le partite allo Stadio Olimp-2 di Rostov, sfilando ogni volta davanti alla statua che lo raffigurava insieme al trofeo intitolato al buon Henri Delaunay, che ancora oggi rappresenta il successo di maggior prestigio nella storia del calcio russo.
Questa è la prima di sedici puntate sulla storia degli Europei di calcio che ci accompagnerà fino alla vigilia di Germania 2024.