Sandro Bertaggia ricorda la figura del Presidentissimo. ‘Ho giocato a Lugano diciotto stagioni, ma solo nelle ultime tre sono riuscito a passare al ‘tu’’
«Ci sono poche persone a cui ho fatto fatica a dare ‘tu’, e Geo era una di quelle. Non perché non lo permettesse, anzi, era stato proprio lui, dopo qualche anno che ci conoscevamo, a propormi di passare a una forma di conversazione meno formale, ma perché per il rispetto che nutrivo nei suoi confronti, mi sentivo molto più a mio agio a dargli del ‘lei’». È così che Sandro Bertaggia ricorda Geo Mantegazza. Da giocatore, sotto la sua presidenza aveva vissuto gli anni più fastosi del ‘Grande Lugano’, culminati con la conquista di quattro titoli (a cui l'ex difensore aveva poi aggiunto quelli vinti, sempre in bianconero, nel 1999 e nel 2003, anno del suo addio all'hockey giocato). «A Lugano ci sono rimasto diciotto stagioni, e forse unicamente nelle ultime tre, quando non era più presidente già da un po‘, sono finalmente riuscito a passare al ’tu‘. Fin lì per me è sempre stato il ’signor Mantegazza‘, quello che ogni volta che parlava con me iniziava con ’lei Sandro‘. Al punto che quando arrivavano giocatori nuovi, magari stranieri, che lo apostrofavano con spicci ’Ciao, Geo, come va?‘ e altre forme decisamente più colloquiali, la cosa mi strideva assai, per la forma di rispetto che ho sempre portato per lui».
Approdato in quella che allora ancora si chiamava Resega nell'estate del 1985 (dopo una stagione a Friborgo), Bertaggia l'ha infatti avuto come presidente, anzi ’Presidentissimo‘, come spesso veniva soprannominato, fino 1991, anno in cui Geo Mantegazza ha passato il testimone a Fabbio Gaggini. «Ma anche dopo, bene o male, dietro le quinte la sua presenza si percepiva». E che presidente è stato? «Un presidente che amava restarsene il più possibile in disparte. Ricordo che si presentava raramente nello spogliatoio. Lo faceva solo in caso di necessità e se non aveva altre scelte, magari quando percepiva che la situazione richiedeva un suo intervento. Di conseguenza, quando lo vedevi arrivare in spogliatoio, non ci voleva una sfera magica per capire da che parte tirasse il vento... Non perché arrivava strillando o per fare quel tipo di discorsi che ti scuotono dentro: la sua semplice presenza era più ’esplicita ed esplicativa di mille parole... Geo aveva un modo di fare molto tranquillo, ma al tempo stesso molto deciso e chiaro. Aveva un carisma e una personalità ben scanditi, e per questo era rispettato da tutti».
Dopo aver ceduto il testimone a Gaggini, l'avete ancora visto, magari in spogliatoio? «Come presidente aveva la sua ’visione‘ e idee chiare di cosa fare con il suo ’bambino‘ Hc Lugano, ma, malgrado ciò, non è mai stato una persona che amava farsi vedere oltre il necessario, per cui, dopo aver lasciato la presidenza, lo vedevi sì spesso allo stadio a guardare la partita, al suo solito posto, con la sua ’storica‘ maglia verde, il suo ’talismano’, ma non l'ho più visto nello spogliatoio o in altri locali della pista che non fossero la tribuna. A Geo non è mai piaciuto stare al centro dell'attenzione, se non ai momenti di festa collegiale, come alle feste di Natale o nei vari momenti ricreativi dei fans club».
La prima pietra miliare del ‘Grande Lugano’, a ogni buon conto, Geo Mantegazza l'aveva gettata al termine della stagione 1982/83, quando la squadra conquistò la sua ultima promozione nel massimo campionato. E di quella squadra faceva parte anche Alfio Molina. Che ricorda così il Presidentissimo: «Geo è stato il presidente che ha dato la svolta al club. Quando ha preso in mano la squadra, uscivamo da stagioni nel campionato cadetto non troppo esaltanti. Col suo modo di fare, è riuscito a portare tranquillità a tutto l'ambiente, riorganizzando la struttura societaria, gettando le basi per quella che si è poi rivelata una risalita costante nelle gerarchie nazionali». Che persona era? «Non ricordo occasioni in cui abbia alzato la voce. Qualche parola la scambiava con i giocatori, ma non perché qualcosa non funzionasse. Una persona tranquilla, che dava fiducia. Se qualcosa non gli andava, non l'ha mai esternato: se si presentava un problema con un giocatore o con un altro, cercava il dialogo, ma sempre costruttivo. Cercava sempre di costruire, anziché demolire qualcosa». È stato ‘il’ presidente? «Sì, lo si può sicuramente dire. Anzi, il ‘signor presidente’. Alle partite partecipava sempre, al termine qualche volta lo vedevamo nello spogliatoio, magari per complimentarsi con noi se avevamo disputato una buona prestazione. In un modo o nell'altro ha sempre incoraggiato la squadra. Con lui si parlava apertamente nei corridoi della pista e solo in rari casi, quando la situazione lo imponeva, optava per colloqui individuali».