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Alessio nel paese delle meraviglie

Dopo il titolo svizzero Bertaggia e il Servette salgono sul tetto d'Europa in una serata densa d'emozioni. ‘Il gatto? Sì gli dedico anche questo successo’

‘On est les champions!’
(Keystone)
21 febbraio 2024
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Ginevra – «On est les champions!» gridano sugli spalti, prima che Freddie Mercury e i Queen attacchino le note di un brano che sta bene un po’ su tutto, anche quando si parla d’Europa anziché di mondo.

Così, dopo aver vinto il primo titolo nazionale in primavera, dieci mesi dopo il Servette sale addirittura sul tetto d’Europa. Anche se, rispetto ad aprile, quando Alessio Bertaggia aveva appena vinto il suo primo titolo con quella maglia e ai microfoni dedicava il successo persino al gatto, stavolta il trentenne attaccante ticinese apparentemente sembra meno emozionato. «La dedica rimane la stessa (ride, ndr), però non è che uno quando vince poi si abitua: la differenza credo stia semplicemente nel fatto che conquistare il campionato è il risultato di una lunga ed estenuante maratona, mentre vincere la Champions è una cosa a sua volta difficile, ma in modo diverso. Senza contare, poi, che la nostra stagione non finisce qui: ci sono ancora molte partite da giocare, e anche questo fa una grossa differenza».

Nelle ultime settimane, avvicinandovi a questa finale è tuttavia innegabile che in campionato abbiate accusato un calo: avvertivate la pressione? «È ovvio, un pochino la testa ce l’avevamo lì, ma abbiamo comunque cercato di essere professionali, concentrandoci pure sulle altre partite. Di certo la Champions è sempre stata un nostro obiettivo fin dall’inizio, e dopo aver avuto la fortuna di diventare campioni svizzeri, ora possiamo dire di avere meritato di essere campioni d’Europa! (dice, alzando il tono della voce)».

È il risultato di un martedì emozionante ed emozionale, un po’ com’era stata gara 7 di un’incertissima finale con il Bienne, dieci mesi or sono. Stavolta, però, avete battuto in finale una squadra svedese, e soprattutto da qualche anno a questo parte, quando c’è Svizzera contro Svezia va sempre a finire male… «Anche quella notte la tensione era altissima, ma a differenza dell’ultima sfida con il Bienne, quando di fronte avevamo un avversario che ormai conoscevamo, contro lo Skellefteå non sapevamo esattamente cosa aspettarci. Tuttavia, abbiamo abbastanza esperienza in squadra per riuscire a gestire situazioni del genere, pur se lo Skelleftea è davvero una squadra forte, e lo sottolineo perché è così. D’altra parte, però, delle due finaliste soltanto una poteva vincere, e fortunatamente quella squadra siamo noi».

Dietro le quinte di un trionfo: ‘Stanno vincendo 1-0’. ‘Ah sì?’

Si chiude così, tra lattine di birra e fumogeni, una trionfale serata aperta alle 19.30 puntuali dall’inno svedese in onore dello Skellefteå (che, a dispetto di come si scrive, si pronuncia ‘Sciellefté’), e si può soltanto immaginare in quel preciso istante a cosa stessero pensando Teemu Hartikainen e i quattro finlandesi del Ginevra. In ogni caso, il pubblico ginevrino è sportivissimo, e gli applausi sono davvero convinti. Il clima nello stadio ricorda quelli dei nostri derby, ma di quelli caldi però, e se sulle tribune c’è qualcuno che non canta, lo fa unicamente perché non ha più voce. Lo capirebbe anche uno che viene da fuori e non sa cos’è l’hockey, che stasera in palio c’è qualcosa di veramente grosso. Ciò nonostante, durante tutto il match in giro per i corridoi qualcuno l’incontri sempre: dagli steward che si affrettano (chissà perché, poi?) a chi s’attarda per comprare da bere, da chi è costretto a scendere chilometri di scale per rispondere a una telefonata a chi è lì soltanto per dire in giro che lui c’era, e persino due tizi sui trampoli che faranno tre metri.

Le prime emozioni? Alle 19.36 esatte, quando si avverte un gran boato. Arriva fin negli scantinati, sulle tavolate di un’improvvisata sala stampa allestita nel bel mezzo del corridoio che si trova al piano di sotto della pista (stavolta, infatti, la sala stampa è off-limits per i giornalisti, sfrattati per far posto al quartier generale di Infront e della Champions League), dove decine di persone tra addetti alla sicurezza e musicisti delle ’guggen’ sfruttano ogni posto per sedersi e addentare un panino, in attesa che arrivi la prima pausa. «Che abbia segnato il Servette?» si domandano due ragazze, mentre una frotta di ragazzini arrivati da chissà dove comincia a correre. Poi – improvviso – il silenzio, seguito da una selva di fischi: è come se le Vernets trattenessero il fiato, aspettando che succeda qualcosa. Quando però si ode un secondo boato, anche più forte del primo, seguito dall’urlo dello speaker, è chiaro a tutti che al Servette è stato concesso un gol dopo l’analisi delle immagini tivù (e stavolta, con addirittura venti telecamere in pista, di immagini inconcludenti gli arbitri non dovrebbero averne).

Sembra così distante la pista, eppure sta solo qualche metro sopra le nostre teste. «Vincono 1-0!», dice uno degli agenti della sicurezza al suo vicino che sta sorseggiando dell’acqua. «Ah sì?». «Sì – continua –, hanno segnato quasi subito». In verità, a quel punto Dzierkals aveva già firmato il gol del pareggio per lo Skellefteå, soltanto che qua sotto non se n’è accorto nessuno. Eppure i tifosi svedesi c’erano, li avevamo visti coi nostri occhi mentre, compostamente, sorseggiavano delle birre prima della partita, in uno dei bar vicino alle piscine, dove per l’occasione sono spuntate tende e tendine. A proposito: l’immenso piazzale antistante le Vernets, abitualmente adibito a posteggio per l’occasione ospita un gigantesco capannone, ed è gremito di folla. «Sono migliaia – ci dice uno dei sorveglianti della pista –, tutta gente che non ha trovato il biglietto per entrare». Spettatori di seconda classe, insomma. Infatti per loro la vita scorre più lentamente che per gli altri, siccome passano diversi secondi tra il momento in cui in pista segna qualcuno e quando effettivamente se ne accorgono loro. Così saranno anche gli ultimi a sapere che il Servette è campione. Dura la vita, in seconda classe.