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‘Sediamoci a un tavolo, per il bene di tutti’

Gli stranieri, lo spettacolo e i coach nostrani sulle panchine. Intanto, però, i ragazzi non sanno dove maturare. ‘Presto o tardi la Svizzera ne soffrirà’

Prima coach a Losanna e Friborgo, ora braccio destro (in ufficio) di Christian Dubé. ‘Tanti giovani coach svizzeri? Sì, ma non è voluto’
28 ottobre 2022
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Era il 23 ottobre del 2012, quando l’allora quarantenne Gerd Zenhäusern venne catapultato sotto le luci della ribalta. Così, di punto in bianco. Dopo che il Losanna chiese all’illustrissimo John van Boxmeer di prendere la porta di uno stadio che da una decina d’anni cercava di ritrovare il proprio posto nell’élite nazionale. Da quell’ottobre del 2012, in Svizzera ne sono cambiate di cose, in una Lega nazionale che ha visto sbocciare fior fior di giovani tecnici rossocrociati (da Fischer a Wohlwend, da Dubé a Cereda, da Paterlini a Cadieux fino addirittura al ventinovenne Luca Gianinazzi) e che quest’anno è stata invasa da un’ondata di finlandesi soprattutto, dopo che – ed è superfluo spiegarne le ragioni – la Khl ha improvvisamente perso tutto il suo fascino. Una specie di bolla che, però, presto o tardi sarà destinata a scoppiare. «È vero che anche in Svezia si comincia a pagare molto, molto bene i buoni giocatori, ma è indubbio che il nostro rimane il mercato più attrattivo a livello finanziario – spiega il cinquantenne figlio dell’indimenticato Aldo Zenhäusern, diventato nel frattempo braccio destro di Christian Dubé nel ruolo di direttore sportivo aggiunto a Friborgo –. Ecco perché, tolta la Khl, in principio la seconda opzione è la Svizzera. Ed ecco perché svedesi, finlandesi e cechi che giocavano in Russia adesso sono qui da noi».

Nel vendere una riforma ovviamente varata senza sapere cosa sarebbe poi successo in Ucraina, i club dicevano che con sei stranieri in pista ci sarebbe stata più qualità. Almeno in parte, a discapito degli svizzeri: pensando solo ai portieri, in A sono spariti cinque posti di titolare in un sol colpo.

Ma il discorso non riguarda unicamente i portieri. Si può dire la medesima cosa pensando ai difensori offensivi, ma anche ai centri. Se guardiamo agli stranieri arrivati in questi mesi, o sono difensori che sanno gestire il powerplay, oppure sono centri che tengono in piedi un’intera linea. Per il resto sono degli scorer o dei portieri. Agli svizzeri tocca ciò che rimane. E se in futuro i nostri giovani dovranno accontentarsi di essere dei giocatori di ruolo, come si dice, prima o poi la Nazionale non potrà che soffrirne.

Del resto, sia Patrick Fischer in qualità di selezionatore, sia il direttore delle squadre nazionali Lars Weibel si sono affrettati a lanciare subito l’allarme.

A giusta ragione. Ciò che credo io è che presto, ma molto presto, dovremo sederci tutti a un tavolo per parlare del futuro della Swiss League. In un mondo ideale, una National League a quattordici squadre sarebbe troppo, mentre dieci squadre nel campionato cadetto non sarebbero nemmeno abbastanza. Questo, ripeto, in un mondo ideale: andate a chiedere adesso in National League se c’è qualcuno che è disposto a retrocedere... Ritengo che la Swiss League si è mal posizionata decidendo di fare tutto da sola, e dopo non aver trovato nulla, ma proprio zero, ora chiede alla National League aiuti finanziari senza però che ci sia nulla in cambio. Qual è il ritorno per noi? Avremo a disposizione dei posti per sviluppare i nostri giovani? Se sì, quanti? E come? Lavoreremo tutti assieme? So bene che ci sono due o tre club che hanno l’ambizione di salire di categoria, ma io ritengo che la Swiss League debba accettare di tornare a offrire ai nostri giovani la possibilità di crescere, prima d’iniziare, magari fra un paio d’anni, un lavoro di lobbying affinché il sistema cambi, ad esempio reintroducendo una relegazione diretta che permetterebbe ogni anno a qualcuno di poter salire.

Il punto è – lo si dice da anni – che tra il campionato degli juniores élite e le prime squadre il divario è notevole.

Certo, e continuerà a ingrandirsi dopo l’aumento del numero degli stranieri e la qualità che non smette di crescere. Ecco perché prima o poi dobbiamo porci la domanda di cosa fare di quei ragazzi: serve una via per permetter loro di svilupparsi fino ai ventidue, ventitré anni. Da dove transiteranno? Queste nuove generazioni, quale cammino potranno seguire per diventare degli atleti? Da qualche parte dovremo pur farli passare.

La tua soluzione?

Io non ho soluzioni: dico soltanto che la situazione è complicata, e se dovessi immaginare come sarebbero le cose fra una decina d’anni, non vedo come si potrebbe andare avanti in questo modo a sviluppare i giovani mentre la Swiss League rischia di morire.

Diversamente dai giocatori, i giovani allenatori in Svizzera sembrano invece non aver problemi a trovare la strada. Quella dei Cereda e dei Gianinazzi (o, per citare anche uno straniero, del trentottenne bernese Lundskog) può essere definita una ‘nouvelle vague’?

Un ricambio ci vuole prima o poi, questo è sicuro. Si potrà anche parlare di tendenza, ma di certo non è voluto: non è che qualcuno s’è detto ‘dobbiamo assolutamente puntare sui giovani allenatori’ e di colpo le società l’hanno fatto. Direi piuttosto che è frutto delle circostanze. Poi, un po’ come per giocatori, c’è generazione e generazione, e naturalmente ci debbono pure essere le opportunità. Comunque è indubbiamente un bene per il nostro hockey che venga dato spazio a dei giovani anche in panchina.

Anche tu, del resto, avevi soli quarant’anni quando fosti promosso da assistente di un mostro sacro come Van Boxmeer ad allenatore capo del Losanna. Non saranno i ventinove di un Luca Gianinazzi, ma comunque...

Ma nel mio caso si trattò di qualcosa di non previsto. Non nel lungo termine, almeno: quando mi affidarono la squadra, l’idea è che l’avrei guidata a medio-corto termine finché non si fosse trovato qualcun altro. Invece abbastanza presto le cose cominciarono a funzionare, e fu così che mi lasciarono dov’ero, anche perché a quel punto non credevano più di poter salire e già pensavano a un’altra strada verso la promozione, l’anno dopo. Invece, beh, in fin dei conti ce l’abbiamo fatta.

Hai detto ‘abbastanza subito le cose cominciarono a funzionare’: quanto è difficile per un tecnico, magari giovane, assumersi una sfida del genere in corso d’opera?

Direi che non lo è. Almeno non all’inizio, siccome sei talmente preso da quell’adrenalina, da tutto quell’entusiasmo... Senza contare, poi, che quella non è null’altro che la sfida che aspettavi da una vita, che hai sempre sognato. Nel mio caso, ricordo bene, in classifica eravamo lontani ma la squadra aveva subito reagito ai cambiamenti che volevo apportare al sistema di gioco. Avevo già parecchie cose in testa, e sapevo che le avrei messe in pratica il giorno in cui finalmente avrei potuto prendere in mano qualche squadra. Poi, quando vidi che le mie idee funzionavano, beh, ciò fece nascere in me una certa fiducia.

Il problema, semmai, è quando le cose non funzionano. Prendiamo l’esempio di un Gianinazzi che s’è assunto un’eredità pesante come quella di McSorley in una piazza esigente come Lugano, e nelle prime tre uscite sono arrivate subito tre sconfitte...

La verità è che è difficile mettersi nei panni di qualcun altro, infatti ogni contesto è diverso. Ad esempio, nel caso di Luca c’è indubbiamente più pressione di quanta ne avessi io a Malley, questo è certo. Qui stiamo parlando di Lega nazionale A: hai puntati addosso i riflettori di tutto il Paese, e i giornali dell’intera Svizzera parlano di te, non solo i media locali. I non ho consigli da dargli, ma quello che so è che dovrebbe mettere in atto le idee che ha in testa anche nel caso in cui le cose non dovessero andare subito come vorrebbe: secondo me, quando un allenatore è assolutamente convinto che la sua idea sia quella giusta deve tirar dritto per la sua strada, senza lasciarsi influenzare troppo. Del resto, saranno state proprio quelle sue idee ad aver convinto il Lugano ad affidargli l’incarico. E quando dietro a un allenatore c’è una società pronta a consegnare la squadra alle capacità e alle competenze di un giovane in cui ripone fiducia, allora va da sé che si debba affidare a lui a medio-lungo termine. So che non sarà sempre evidente, ma bisogna saper dar prova di tranquillità. In caso contrario, se l’allenatore sente che alle sue spalle c’è dell’incertezza oppure dell’esitazione, tipo ‘proviamo, diamogli una chance e poi vediamo’, per lui non sarà semplice. Vale sia che si stia parlando di un coach giovane, sia di uno vecchio.

Quant’è difficile cambiare sistema di gioco a campionato in corso, mentre il calendario corre?

No, difficile non è. In fondo non ci sono trentaseimila maniere di concepire l’hockey: si sta sul ghiaccio in cinque, sei col portiere, e per quanto ognuno abbia la sua propria filosofia le tattiche sono più o meno note a tutti. Certo, si può essere più aggressivi con un sistema tipo ‘due-tre’ o addirittura tutti quanti che spingono, con i cosiddetti ‘pinch’, o al contrario si può optare per un atteggiamento ultra-difensivo, attendendo l’avversario, e nel mezzo ci sono le visioni per così dire ibride. Tuttavia, le varianti non sono infinite.

Certo che però, da quando tu eri salito in A con il Losanna, prima di approdare a Friborgo, dove sei stato anche responsabile della formazione, l’hockey è cambiato parecchio.

Indubbiamente. Diciamo che i Paesi che dettano le tendenze sono quelli nordici, oltre ovviamente alla Nhl. Pur se, questo va detto, oltre oceano a volte copiano anche ciò che si fa da noi. Comunque, quando in Europa c’è qualcosa che si muove, generalmente sono svedesi e finlandesi i primi a cambiare: pensiamo alle difese ultracompatte del giorno d’oggi, con ali che scendono fin davanti alla porta, oppure all’attacco dove i difensori partecipano in maniera sempre più attiva alla fase offensiva, invece di restarsene staticamente a ridosso della linea blu. Chissà come sarà l’hockey fra una decina d’anni... Magari vedremo cinque giocatori sul ghiaccio e non capiremo più chi di loro è attaccante e chi invece difende, e forse (ride, ndr) il primo che tornerà a coprire non sarà nemmeno un difensore.