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Cereda: ‘Mettermi in dubbio è il ruolo di chi mi sta attorno’

Allenatori nel regno della passione, dove l’istinto e il coraggio contano più dell’esperienza. A tre settimane da un secondo derby che sarà ticinese ‘doc’

Gioie, dolori ed errori, magari anche tanti. ‘E quando si sbaglia, lo si riconosce e si va avanti. Semplicemente’
(Ti-Press/Crinari)
13 ottobre 2022
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Quella lavagna bianca con cinque cerchi e qualche linea rossa e blu è la tavola della legge. Il pennarello, invece, è lo scettro del potere, in uno spogliatoio in cui gli altri dovrebbero starsene tutti zitti ad ascoltare, anche se non è sempre così che vanno le cose.

Criticato dai tifosi, incalzato dai giornalisti e persino messo in dubbio dai suoi stessi giocatori: senz’altro, quello dell’allenatore non è un mestiere per tutti. Bisogna esserci tagliati. E bisogna andare un po’ a cercarsela. «È vero, da parte dei giocatori è un continuo metterti alla prova – spiega Luca Cereda, allenatore che non ha certo di bisogno di presentazioni e che con i suoi 41 anni fa parte della nouvelle vague di giovani tecnici che iniziano ad affollare le panchine del nostro campionato –. Giustamente, aggiungerei. Credo tuttavia che sia così un po’ in tutti i lavori: dovunque c’è un capo, ci sarà qualcuno che starà sotto di lui, e quel qualcuno non sarà sempre d’accordo con le decisioni prese, ma dovrà comunque fare ciò che gli viene chiesto. A quel punto proverà a insinuare dei dubbi, credo sia umano. Del resto è così: quando si comanda, bisogna saper convincere gli altri, saperli coinvolgere. Ma talvolta non è così semplice».

È a quel punto che emerge il carattere di un allenatore?

Credo di sì. Non c’è un modo giusto e uno sbagliato di fare le cose. C’è chi è più autoritario, e chi invece vuol rendere maggiormente partecipi i giocatori: ognuno ha il proprio stile. Per come la vedo io, l’importante è che ognuno rimanga se stesso e non si metta a imitare qualcun’altro, oppure che si lasci influenzare e perda il controllo della situazione.

Tu hai 41 anni, ma quando sei arrivato sulla panchina dell’Ambrì ne avevi 35. Johan Lundskog del Berna invece ne ha 38, e quel Luca Gianinazzi fresco d’intronizzazione a Lugano ne ha addirittura appena 29. Quanto conta davvero l’età di un allenatore?

Non penso sia un fattore importante. Se guardiamo a ciò che succede in Germania nel calcio, ad esempio, ci sono parecchi casi di giovani tecnici che hanno cominciato presto la carriera di allenatore, e di conseguenza sono arrivati prima su qualche panchina in Bundesliga. Io credo che a contare sia più l’autorevolezza: quello che sai, quello che hai potuto imparare, quello che già hai nella testa e nel cuore. E poi come riesci a trasmetterlo. Naturalmente all’inizio ti mancherà l’esperienza, ma d’altra parte avrai senz’altro grande energia, grande passione e gran voglia di fare, cose che un po’ ti permetteranno di compensare.

Dando per assodato che la preparazione è la base delle qualità di un coach, infatti senza un’idea e degli schemi di gioco non andrebbe da nessuna parte, tra esperienza e istinto l’aspetto preponderante qual è?

Direi il secondo. Trovo sia più importante perché di esperienze non finirai mai di farne, e avrai sempre qualcosa da imparare. Mentre invece l’istinto o ce l’hai, oppure no. Naturalmente ci sarà sempre la possibilità di allenarlo, per così dire, ma vale un po’ lo stesso discorso che per i giocatori: pur se con l’esperienza uno può comunque riuscire a migliorare, a chi non ha di suo una buona capacità di leggere il gioco sarà difficile insegnargliela. Quindi sì, direi l’istinto. Anche se poi a contare moltissimo è la passione, che ti permette di superare i momenti più difficili, i quali andrebbero affrontati come se fossero un’opportunità, non come se fossero un macigno da portarsi appresso.

Per difendere ciò che dice l’istinto dinnanzi alle difficoltà, tu cosa fai? Torni mai sui tuoi passi?

Direi che è personale: molto dipende da che tipo sei. Però nell’hockey le cose vanno talmente veloci che nessuno, ma proprio nessuno può pensare di portare a termine un allenamento, una settimana, oppure una stagione intera senza sbagliare niente. Vale per i giocatori come per l’allenatore. E quando si sbaglia, lo si riconosce e si va avanti. Semplicemente.

Per una volta, senza rischiare di abusarne possiamo scomodare l’aggettivo ‘storico’ pensando al secondo derby stagionale: sul ghiaccio di Lugano, il 1. novembre, sulle panchine ci saranno due allenatori ticinesi, cosa mai successa in passato.

Prima di tutto mancano ancora tre settimane, quindi calma: dobbiamo ancora arrivarci. Però è vero, per la prima volta Ambrì e Lugano si sfideranno con due coach ticinesi: sarà qualcosa che rimarrà nei libri di storia, e farne parte senz’altro è motivo d’orgoglio per tutti noi.

Ma tu sapevi di essere soltanto il secondo allenatore ticinese in Leventina? Tuffandosi negli archivi di Ambrì e Lugano, grazie all’immane lavoro di Brenno Canevascini e Paolo Poretti ci si accorge che alla Valascia prima di te c’è stato solo Giovanni ‘Nani’ Zamberlani, tra il 1947 e il 1949. Mentre a Lugano, tolto il famoso derby diretto in panchina da Ruben Fontana nel gennaio 2009, l’ultimo precedente ticinese risale alla stagione 1968/1969, quando la squadra venne affidata per sei partite a Giuseppe ‘Beppe’ Faoro.

No... (risponde sorpreso, ndr). No, questo sinceramente non lo sapevo.

E se questo storico momento finisse per essere da ulteriore stimolo a quei giovani che sognano di vestire un giorno le maglie di Ambrì e Lugano, e che ora sanno di poter legittimamente anche ambire a metter piede su una di quelle panchine?

Io lo spero, lo spero vivamente. Ma non soltanto su quelle due. Adesso stiamo parlando di professionismo, ma in realtà di allenatori c’è gran bisogno anche nelle categorie inferiori. E servono coach che siano validi, che sappiamo insegnare ai più giovani. Nell’hockey ci sono moltissimi bambini che iniziano, ma solo pochi di loro riusciranno a fare di questo sport il loro mestiere. L’hockey è soprattutto una scuola di vita, e io vedo che in quell’ambito si potrà lavorare molto con le famiglie e con le scuole, e far sì che quei bimbi crescano in un ambiente sano.

Del resto, anche tu sei partito dal basso, nel senso che prima di arrivare ai Rockets già allenavi nel settore giovanile dell’Ambrì, proprio come quel Luca Gianinazzi che fino a qualche giorno fa dirigeva gli juniores élite bianconeri. Ricordi il momento preciso in cui alla Valascia accettasti il posto sulla panchina della prima squadra?

Certo che sì. Ricordo il primo colloquio con Paolo (Duca, ndr), qualche giorno dopo il famoso spareggio vinto a Langenthal (era l’aprile del 2017, ndr). All’epoca in testa avevo una visione già piuttosto chiara, siccome erano ormai dieci anni che allenavo: sapevo bene cos’avrei voluto fare, ma evidentemente avevo il dubbio di riuscire a trasmettere questo mio pensiero a una squadra di professionisti. Non avendolo mai fatto, non sapevo se ne sarei stato effettivamente capace. C’era un mix di emozioni che spaziavano dall’euforia all’orgoglio, dai dubbi ai timori.

Può, in verità, un allenatore avere dubbi?

Ah sì, certamente (risponde deciso, ndr). Ed è giusto così. Anzi, io ritengo che il ruolo di chi sta attorno a un allenatore è proprio quello di metterlo in dubbio, per costringerlo a riflettere di più. A coloro che mi stanno attorno chiedo sempre di esprimere le loro opinioni, senza per forza aspettare che io dica la mia per prima. E quando mi rispondono ‘sì, va bene’, io insisto: ‘mettetemi dei dubbi in testa!’. Poi è chiaro, in fin dei conti sarò io a prendere quella decisione, però almeno prima di allora sapremo di aver messo tutte le carte in tavola.

Un conto è però avere dei dubbi dopo dieci anni di panchina, un altro è averli nelle prime ore in cui si ottiene un mandato come può essere quello di Luca Gianinazzi. Quanto fegato ci vuole per accettare un’offerta del genere di punto in bianco, specialmente in mezzo a tanta pressione?

Ci vuole coraggio, indubbiamente. Del resto è così che stanno le cose per un allenatore. Di tanto in tanto ne discutiamo con Paolo (Duca, ndr): a volte si fanno delle scelte che magari possono sembrare impopolari, ma le si fanno sempre con coraggio. Poi questa o quella scommessa alla fine magari si perderà, ma certamente non perché è mancato il coraggio di agire. Nel caso contrario, invece, si sarebbe già perso in partenza. Secondo me è proprio quella la più grande sconfitta, il non affrontare una sfida.

Ripensando al derby di novembre, pur se un po’ in anticipo: non ti sembra strano doverti misurare in pista con un Luca Gianinazzi che in passato, sul ghiaccio di Biasca, avevi allenato?

Ammetto di averci pensato. Infatti era capitato anche a me di dover ‘sfidare’ dei tecnici che in passato erano stati miei allenatori, come ad esempio Doug Shedden o a Serge Pelletier. Mi sono sempre detto che il giorno in cui sarebbe successo a me ne sarei stato contento: infatti, se un mio ex giocatore è arrivato fin lì significa che negli anni in cui l’ho allenato perlomeno sono riuscito a non spegnere in lui la passione per l’hockey. E anche se ho allenato Luca Gianinazzi per due sole stagioni, mi rende felice sapere che è arrivato dov’è ora: è la prova che questa passione per lui non è mai stata effimera.

Ma Luca Gianinazzi che tipo è?

Ricordo ancora ciò che gli dissi a Biasca durante il colloquio di fine stagione. Vedevo tanto, ma proprio tanto in lui il desiderio di aiutare gli altri. Specialmente i giocatori più giovani, che cercava di mettere a loro agio. Aveva la passione di mettersi a disposizione, di discutere i problemi. Non so se socievole è il termine giusto, ma di sicuro Luca è una persona molto aperta, che ha voglia di aiutare. Lo notai perché si percepiva, era un qualcosa di marcato. Onestamente non ricordo se alla fine glielo dissi, ma ciò che pensai è che effettivamente un giorno sarebbe potuto diventare un buon allenatore.