Da campione a tifoso, quindici anni dopo aver smesso l’ex attaccante biancoblù ha riscoperto la passione. ‘Sono momenti da pelle d’oca’
Con la testa del campione e gli occhi del tifoso. Tra la folla in delirio sulle tribune di una Gottardo Arena che vive la sua serata memorabile, nel lunedì che consegna all’Ambrì la rimonta incredibile. Incredibile per non dire impossibile. «Sì, certo che c’ero. Avevo una gran voglia di esserci, tanto che mia moglie continuava a dirmi ‘stai tranquillo, sei troppo agitato!’».
Quindi non basta averne viste di cose per non provare certe emozioni, se anche uno come Mattia Baldi riesce ancora a vibrare davanti a una partita di hockey, nonostante le sue 569 partite in A, i tre Mondiali alle spalle e persino un Draft Nhl, all’ottavo turno – era il 1996 – con i Montreal Canadiens. «Certo, queste sono le emozioni da puro tifoso – racconta l’oggi quarantaquattrenne ex attaccante di Ambrì Piotta certo, ma pure di Zurigo e Ginevra Servette –. Prima, da giocatore forse non riuscivi a capire esattamente come la gente vivesse certi momenti. Saranno emozioni vissute in maniera diversa, perché sono due posizioni totalmente differenti, ma alla fine le provi comunque. E sono emozioni da pelle d’oca. Se ti piace l’hockey, ti direi ’vai ad Ambrì’: perché ti ritrovi a vivere quel mix tra delusione ed euforia che, forse, non troveresti da nessun’altra parte. Nel bene come nel male, intendo».
Come hai vissuto quel lunedì sera? «Sono partito da Giornico dopo il lavoro, ho fatto tappa a Lavorgo per prendere mio padre e con mia figlia che ha sedici anni e suo cugino che ne ha altrettanti, siamo saliti tutti assieme alla Valascia. Cioè sì (ride, ndr) alla Gottardo Arena. Loro però sono andati in curva a divertirsi, com’è giusto che sia a quell’età».
Dal lapsus, si direbbe che la vecchia pista manca eccome... «La verità? Da quando ho smesso di giocare a hockey non sono mai stato così tanto allo stadio come quest’anno. Effettivamente, bisogna dirlo, è tutta un’altra cosa: un gran bel gioiello. Ho visto partite dalla curva oppure dalla tribuna, ma da qualsiasi punto ti trovi la partita la vedi benissimo. Spettacolare».
Quando ancora giocavi, avresti mai immaginato che un giorno avrebbe visto sul serio la luce questa pista? In fondo, sarà da un trentennio che se ne parlava. «No, l’ammetto: mai avrei pensato che un giorno sarei andato a vedere l’Ambrì in uno stadio del genere. Mai, davvero. Per non parlare, poi, dei momenti più bui. Invece, chi come il presidente e chi come lui ci ha sempre creduto, si sono rivelate persone capace, in grado di regalare ai tifosi qualcosa di così bello, di così grande».
Di grande, però, c’è anche l’impresa dell’altra sera: chi avrebbe mai potuto pensare che fosse possibile recuperare dieci punti a una squadra come il Berna, oltretutto, nel giro di un paio di settimane? «Senz’altro, si può ben dire che è qualcosa di eccezionale. I ragazzi ci hanno creduto, fino in fondo: onore e merito a loro e a chi li ha guidati, tra Paolo (Duca, ndr) e ‘Cere’ hanno fatto davvero un ottimo lavoro. Anche se non è stato sempre facile, perché effettivamente sono stati pure oggetto di critiche».
Davvero ingenerose, a volte. «Infatti, e quando ho sentito certe cose un po’ mi piangeva il cuore. Perché è veramente dura riuscire a parlare male di persone che ci mettono anima e corpo. Senza contare che in questo momento è difficile fare di meglio. È chiaro, si potevano vincere determinate partite ma d’altra parte se ne potevano perdere più di quelle che sono state effettivamente perse. Chissà, se anche Kozun avesse fatto ciò che doveva fare...».
Ecco che viene a galla il Mattia Baldi tifoso... Ma quel Mattia Baldi, cosa direbbe adesso ripensando ai tempi in cui, invece, distribuiva check sulle piste di tutta la Svizzera? «Che in questi quindici anni ne sono cambiate di cose... Oggi ci sono nuove metodiche di allenamento, ma pure la tecnologia è evoluta. Penso, ad esempio, a quel nuovo progetto avviato ad Ambrì e che permette di capire quanto siano sotto sforzo i giocatori. Ai nostri tempi eravamo sì controllati, ma non così approfonditamente. In pista, invece, è cambiata la velocità: oggi i giocatori si muovono molto più rapidamente. È forse questa la grossa differenza».
Lo stesso anni in cui smettesti tu, era la fine della stagione 2006/2007, anche Luca Cereda arrivò alla decisione di appendere i pattini al chiodo. Quindici anni dopo, lui è arrivato dove si trova adesso: avresti mai pensato che quello di fare l’allenatore sarebbe stato il suo destino? «Sul fatto che da sempre è una persona molto seria e che ha le idee ben in chiaro lo si intuiva già quand’era giocatore. Sapeva cosa voleva e cos’avrebbe dovuto fare per ottenerlo. Però, è vero, che nella vita non sai mai cosa può capitare. Ricordo ancora quando mi disse che avrebbe smesso: ero in vacanza e mi telefonò per dirmi che avrebbe chiuso la carriera pure lui a causa di quel suo problema cardiaco. Io, che però avevo annunciato da mesi che avrei lasciato, ci rimasi davvero male. Infatti lui avrebbe potuto giocare ancora per tanti anni, e sono convinto che sarebbero stati anni ricchi di soddisfazioni».
Quelle soddisfazioni se le sta comunque togliendo stando in piedi su una panchina. «Da lì a diventare ciò che è diventato oggi, all’epoca non me lo sarei immaginato. Ma ben venga che abbia scelto di prendere quella direzione. Se c’è una cosa che posso dire è che in passato andavo raramente alla Valascia per assistere alle partite, anche perché più volte m’era capitato di andarmene con la sensazione di aver vissuto poche emozioni: non c’era un giocatore che mettesse i pattini di traverso per lo ‘stop and go’, mancava la necessaria aggressività, l’adrenalina. Invece, da quando c’è il ’Cere’, sì, senz’altro ci saranno state partite in cui la squadra avrà perso malamente, ma in pista ho sempre visto gente che lottava dall’inizio alla fine, e questa a me è una cosa che è sempre piaciuta. Ho grande rispetto per chi va in pista e dà sempre il massimo, anche se magari alla fine gli danno del ‘piccione’ per aver perso una partita che stava vincendo per 4 reti a 0».
Insomma, quella partita con lo Zugo di fine novembre rimarrà una macchia indelebile... «Sì ma, appunto, l’avversario era lo Zugo: sarebbe potuto capitare a chiunque. Poi magari adesso quella dell’identità sarà una cosa un po’ monotona e scontata, ma per riuscire a far passare il messaggio devi essere un ‘grande’. E da quel momento in poi sai che farai fatica quando starai sui pattini».
A questo punto, però, la domanda è scontata: un Mattia Baldi che tanto si appassiona, e che riesce ancora a vivere simili emozioni non ha qualche rimpianto dopo aver deciso di abbandonare a trent’anni la carriera agonistica, allontanandosi del tutto dal pianeta hockey? «Se così è stato, è perché l’ho deciso io. Avevo le idee chiare. Sapevo che quando avrei smesso l’hockey non avrebbe più fatto parte della mia vita. Anzi, per una decina di anni l’ho persino rinnegato: non volevo più saperne. Volevo girare pagina, iniziare una nuova carriera professionale, e per uno sportivo d’élite entrare nel mondo del lavoro non è proprio una passeggiata, ma questo è un altro discorso. Quindi no, non ne sono pentito. Anzi, apprezzo il fatto di aver potuto riassaporare in questi ultimi anni la gioia e il piacere di andare a veder giocare l’Ambrì».
Nessun rimpianto? «No. Quello era il mondo che sognavo, che ho cercato fin da bambino, e poi ho avuto la fortuna di diventare ciò che volevo essere: un giocatore di hockey professionista. Direi di aver avuto tanto e di averlo avuto subito, e sono soddisfatto di ciò che sono riuscito a fare. Poi, per fortuna direi, ho intuito quale fosse il momento giusto per smettere, perché a quel punto per me non aveva più senso, e ho deciso di lanciarmi in una nuova avventura professionale. Se qualcuno oggi mi chiedesse se ho dei rimpianti per non aver provato, che ne so?, a diventare un allenatore, la mia risposta è no. Ho vissuto quelle emozioni un tempo quand’ero sul ghiaccio e oggi le ritrovo dall’altra parte, e mi dico che sono fortunato di averle potuto provare entrambe».