In occasione di ciò che sarebbe stato il suo 90° compleanno, ricordiamo la storia vincente ma triste del ciclista lussemburghese, scalatore leggendario
La mattina in cui morì, il 6 dicembre 2005, mancavano due giorni al suo settantareesimo compleanno. Fatto un calcolo al volo, significa che Charly Gaul avrebbe compiuto ieri 90 anni. Quando l’embolia polmonare se lo portò via, già da un pezzo non era più l’Angelo delle montagne. Da qualche tempo, infatti, la gente parlava di lui come del Vecchio eremita che vive ai margini della foresta, nelle Ardenne lussemburghesi. La seconda parte della sua vita, del resto, non era stata troppo felice. Dopo il ritiro, nel 1966, aveva ripudiato il mondo del ciclismo, nel quale aveva bazzicato una dozzina d’anni da corridore vincente, ma mai veramente integrandosi al gruppo. Si era comprato un bar, si era messo a spinare birra e, senza rendersene conto, aveva cominciato a berne più del dovuto. Pessima dieta, specie per chi è tendente alla depressione. Ormai alcolista, aveva mollato tutto per ritirarsi nella sua capanna, dalla quale usciva solo per procurarsi l’indispensabile. Indossava sempre gli stessi vestiti, che avevano ormai l’odore del cane da cui non si separava mai. Aveva ormai rinunciato al telefono e, se un giornalista passava a trovarlo, parlava solo per confessare di esser preda del male oscuro: non vi dirò neanche una parola - metteva le cose in chiaro - voi mi domandate di un passato lontanissimo, lasciatemi in pace, sono soltanto un vecchio brontolone.
Il passato che tutti volevano rievocare era un’epoca fatta di gloria e successi, imprese titaniche per sempre incise nella leggenda del ciclismo. Le sue gesta sul Monte Bondone al Giro d’Italia del 1956, addirittura, sono da molti considerate il più grande exploit in assoluto nella storia delle due ruote. Era l’8 giugno, ma a Merano, da dove partiva la tappa, pareva tornato l’inverno. Nelle prime due settimane di gara, il 24enne Charly Gaul - alla terza stagione da professionista - era già riuscito a vincere un paio di tappe, la Pescara-Campobasso e la crono bolognese con arrivo al santuario della Madonna di San Luca. In classifica, però, rimaneva abbastanza lontano per non mettere in allarme nessuno quando si mise a spingere sui pedali come un dannato malgrado il vento, la pioggia gelida e poi la neve che avevano deciso di violentare quella ventesima tappa destinata a non esser mai dimenticata. Le condizioni erano così terribili che i primi ritiri si registrarono già sulla prima salita, superata per primo da Gaul in compagnia dell’iberico Bahamontes - fra i suoi pochi amici - con oltre 40 secondi di vantaggio su Fornara, che portava la Maglia rosa. Sul Rolle, invece, Gaul transitò da solo: l’amico spagnolo - pur essendo il più vicino dei suoi inseguitori - accusava ormai tre minuti di ritardo.
La pioggia divenne neve, e i ‘girini’ presero a cadere come mosche congelate in volo. Ad alzare bandiera bianca fu pure Defilippis, malgrado quando montò sull’ammiraglia fosse virtualmente il nuovo leader, avendo staccato Fornara di oltre cinque minuti. Poco dopo fu lo stesso Fornara, mezzo morto, a dare forfait alle porte di Trento. Gaul non si accorse di nulla, e continuò ad arrampicarsi incurante della neve che gli cadeva sulla testa e del freddo che gli ghiacciava i freni, peraltro inutili lungo quegli ultimi km che conducevano al Monte Bondone. Fatto sta che il lussemburghese Charly Gaul, una volta transitato sotto lo striscione del traguardo dopo oltre 9 ore di tregenda, dovette attendere quasi 8 minuti prima di veder spuntare Fantini, il secondo classificato, e addirittura oltre 12 minuti per conoscere il nome del terzo: era il grande Fiorenzo Magni, che avendo una spalla fratturata reggeva il manubrio con un tubolare stretto fra i denti. Il termometro segnava meno quattro gradi, e a flirtare con l’assideramento erano pure i giornalisti, benché se ne stessero al chiuso delle automobili. Degli 86 ciclisti partiti quel mattino, a ritirarsi furono ben 45, fra cui Poblet, Nencini e il già citato Bahamontes: Gaul, che non riusciva a staccare dal manubrio le dita congelate, recuperò la bellezza di 14 posizioni, si impadronì della Maglia rosa, la difese nelle ultime due tappe e, a 24 anni da compiere, vinse probabilmente il più leggendario dei Giri d’Italia.
L’anno seguente (1957) stava per ripetere l’impresa: in rosa da tre giorni, quando si ritrovò ad affrontare il ‘suo’ Monte Bondone - forte di un buon vantaggio in classifica e confidando nella correttezza dei rivali - si fermò un minuto per mingere: gli avversari (soprattutto Nencini e Louison Bobet) ne approfittarono per attaccarlo vigliaccamente e riuscirono a fargli perdere quattro posizioni. La Maglia rosa andò a Nencini, e inutile fu per Gaul vincere la tappa successiva (a Levico Terme): fu l’italiano a vincere il Giro. Si rifece ampiamente della delusione nel 1958, andando a conquistare nientemeno che il Tour de France: e lo fece alla sua maniera, staccando tutti di una decina di minuti sulle strade che dividevano Briançon da Aix-les-Bains, comprensive di cinque colli spezzagambe. Quella cavalcata gli fece scalare paurosamente la classifica, fino alla terza posizione: la maglia gialla arrivò due giorni più tardi, grazie alla vittoria nella lunga crono da Besançon a Digione.
Il folletto Charly Gaul - poco più di 170 cm per 60 kg scarsi e già ribattezzato Angelo della montagna - con quel successo alla Grande Boucle si ritagliò definitivamente un posto nell’Olimpo del ciclismo, suffragato l’anno successivo da una seconda affermazione al Giro d’Italia, ottenuta - di nuovo - grazie a un’impresa dal sapore epico. Il 6 giugno in cartellone c’era la penultima tappa, che portava la carovana da Aosta a Courmayeur fra infiniti saliscendi. In rosa c’era il grande Jacques Anquetil, che aveva appena strappato il simbolo del primato proprio a Gaul, che l’aveva indossato per una dozzina di giorni. Il lussemburghese andò all’attacco sul Piccolo San Bernardo, il francese provò a rispondere, ma presto entrò in una delle peggiori crisi della sua carriera, fu costretto a lasciar fuggire il rivale e giunse al traguardo con nove minuti di ritardo. Nelle ultime tappe, Anquetil recuperò qualcosina, ma Gaul riuscì comunque a difendere il primo posto finale con oltre 6 minuti di margine. Stremato nel fisico da fatiche ciclopiche e dalle pillole che in quegli anni tutti prendevano in dosi massicce, Charly Gaul - fra gli scalatori più entusiasmanti di tutti i tempi - scese di sella quando aveva soltanto trent’anni. Stanco di un ambiente che in fondo non aveva mai amato - antipatia peraltro ricambiata - per qualche anno tornò ogni tanto a veder sfrecciare i suoi ex colleghi, se il Tour passava per caso vicino alla sua casetta nel bosco. Ma si piazzava dove non c’era nessuno, per evitare che qualcuno, riconoscendolo, si mettesse a far domande sulle quelle sue lontane imprese entrate ormai nel mito. Una delle poche volte che accettò di mostrarsi in pubblico fu il funerale di Marco Pantani, altro scalatore tormentato a cui Gaul diceva di sentirsi assai vicino.