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Gli occhi folli di Totò che fecero sognare un Paese

Nella memoria collettiva italiana è indelebile lo sguardo spiritato di Schillaci a Italia ‘90. Eroe nazionale, idolo in Giappone, mai con il ’suo' Palermo

19 settembre 2024
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Il primo Mondiale è come il primo amore: non si scorda mai. Soprattutto se, come accade per l’amore, a restare nella mente di un bimbo di 9 anni sono gli occhi. Quelli di Totò Schillaci, spiritati di incredula e incontenibile gioia, fecero innamorare un Paese intero della Nazionale di Azeglio Vicini nelle notti magiche di Italia ’90. Era il Mondiale delle grandi opere incompiute o destinate all’abbandono, delle spese esorbitanti e degli assurdi sprechi per rifare stadi fatiscenti o costruire nuove cattedrali nel deserto, degli hooligans e della mascotte “Ciao”. Ma anche dell’eterno Roger Milla e della favola Camerun, dello stravagante René Higuita (che a quella favola diede un tragicomico, involontario contributo), di Maradona e Matthäus, dell’Urss che c’era ancora, della Jugoslavia e della Cecoslovacchia che erano una sola e delle Germanie che erano due ma ne partecipava una sola.

Quel Mondiale casalingo il ragazzo del quartiere Cep, nei piani dell’allenatore, lo avrebbe visto dalla panchina, chiuso davanti da Gianluca Vialli e Andrea Carnevale, almeno fino a quando Vicini non lo butta dentro a un quarto d’ora dalla fine del match d’esordio con l’Austria data l’inconcludenza del neoromanista. Passano 4 minuti, cross di Vialli, il metro e 73 di Totò svetta e buca la robusta difesa austriaca meglio che a Vittorio Veneto: esplode l’Olimpico, esplode Bruno Pizzul al microfono, esplode casa mia. Esplode soprattutto Schillaci, con quello sguardo strabuzzato di chi non si fermerà poi più, segnando in sei partite su sette.

Fra tutti, il gol con l’Argentina sarà l’ultimo ricordo positivo che il sottoscritto conserva di quel suo primo Mondiale da spettatore: quella sera in tutto il paesello andò via la corrente, ciò che fece sì che, a lume di candela, forse per un atto di clemenza del Dio del calcio sapessi solo dalla radiolina a pile della sciagurata uscita di Walter Zenga su un cross di Maradona lasciato solo dai difensori come Tapparella di Elio e le Storie Tese alla festa delle Medie. Andai a letto, triste e sconsolato, con la delusione di un bambino di 9 anni a cui un amichetto distratto rompe il giocattolo appena comprato: ci pensarono gli amici del pianerottolo, finiti a vedere la partita in un gabbiotto dell’autostrada con il casellante, a infrangere definitivamente le mie speranze di ripararlo. A poco servì il rigore contro l’Inghilterra che gli permise di affiancare Pablito Rossi, ma senza la gioia di alzare la Coppa al cielo, svanita fra le farfalle cacciate da Zenga.

Per gli strani scherzi del dio del pallone, saranno gli unici gol di Totò in maglia azzurra, oltre a un altro, ininfluente, in una fredda serata a Oslo in cui una non irresistibile Norvegia fece a noi italiani una brutta sorpresa le cui conseguenze si sarebbero protratte fino al palo di Rizzitelli in una altrettanto fredda notte moscovita. Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia.

Dal ‘Celeste’ al Sol Levante

Le notti magiche di Italia '90 lo furono ancora di più per chi viveva al di là dello Stretto e Totò l’aveva visto esplodere nel (de)cadente “Giovanni Celeste” di Messina, allenato da due monumenti della panchina come il professor Franco Scoglio e l’eterno Zdenek Zeman.

Un sacco di gol, 23 in una sola stagione di serie B, che gli fanno prendere subito la via del nord, destinazione Torino sponda bianconera. Dove, oltre che per i 15 gol che lo spedirono dritto in maglia azzurra, lo ricordano con meno simpatia per quell’improvvido: “Ti faccio sparare” urlato al bolognese Poli accompagnato dall’inequivocabile gesto del pollice e indice: non esattamente un modo per mettere a tacere gli stereotipi sui siciliani, diciamo, un gesto dettato dalla foga di cui Schillaci si dirà pentito per anni.

Mettici anche l’arrivo di Vialli, e (come raccontò lo stesso Totò in un’intervista) la dirigenza juventina che non approvò la separazione dalla moglie, e via verso la Milano nerazzurra, dove inizia bene ma non finisce benissimo. E fu così che nel 1994 Schillaci divenne il primo italiano a giocare nel campionato giapponese, che da soli due anni aveva svoltato verso il professionismo in un periodo in cui in Italia il calcio del Sol Levante era accostato ai campi chilometrici a forma di collina e ai palloni che diventavano aerodinamicamente ovali del cartone animato “Holly e Benji”. In Giappone Totò arriva come una star, con interprete e autista personale, accolto da un grande entusiasmo che ricambierà a suon di gol beccandosi anche, già che c’era, una squalifica per insulti all’arbitro.

Un rimpianto Schillaci se lo porterà dietro tutta la vita: quello di non aver mai vestito la maglia rosanero del “suo” Palermo, che agli esordi non accettò il rialzo di prezzo chiesto dalla squadretta dell’azienda di trasporti, né offrì a Totò un’occasione a fine carriera. Solo ora, dopo il triplice fischio della sua vita, con la camera ardente il “Renzo Barbera” gli tributerà un ultimo, tardivo omaggio: un amaro “nemo profeta in patria”.

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