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Addio a Eriksson il gentiluomo

Il tecnico svedese, spentosi a 76 anni per un male incurabile, sarà ricordato – oltre che per i suoi meriti sportivi – per l'intelligenza e la signorilità

26 agosto 2024
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Lo scorso gennaio aveva ricevuto dai medici una diagnosi che non lasciava scampo: il tumore aveva aggredito anche il pancreas, e lui avrebbe vissuto al massimo un altro anno. Con coraggio, Sven Goran Eriksson lo comunicò a tutti, ringraziando ogni componente del mondo del calcio – che tanto lo ha amato - e aveva iniziato una sorta di giro d’onore per l'intera Europa, per dire addio alla sua gente.

La sorte, poi, non gli ha concesso nemmeno quei dodici mesi in cui poteva sperare, e pochi giorni fa – forse consapevole che la fine era ormai vicinissima – aveva voluto farci avere il suo ultimo messaggio: «Spero che mi ricordiate come un brav’uomo». Ed è certo che tutti lo faranno, perché il tecnico svedese, scomparso ieri a 76 anni, una persona meravigliosa lo era davvero. «La vita contempla anche la morte», aveva aggiunto, «Prendetevi cura di voi stessi, prendetevi cura della vostra vita, e vivetela nel modo migliore».

Il calcio internazionale perde un grande allenatore, un innovatore a livello tattico e una mosca bianca, un modello di educazione e moderazione – oltre che di cultura - in un mondo, quello del pallone, fin troppo pieno di prevaricatori, ciarlatani e raccomandati, sedutisi su panchine prestigiosissime senza alcun merito, se non quello di esser simpatico – perché adulatore – ai presidenti più potenti.

Dopo una modesta carriera da terzino nel calcio minore, ‘Svennis’ divenne tecnico quando aveva solo 28 anni, ispirandosi alla versione più moderna del gioco inglese, quella che negli anni Settanta sbarcò nel suo paese, la Svezia, insieme a Roy Hodgson – futuro Ct della Svizzera –, capace di vincere due titoli alla guida del modesto Halmstad. Eriksson Si mostrò subito capace e presto fu chiamato dal Göteborg, al quale in tre stagioni regalò un campionato, due coppe nazionali e una Coppa Uefa, primo alloro continentale per un club svedese.

Si trasferì quindi al Benfica per due anni (due scudetti) e poi accettò le lusinghe dal calcio italiano, che all’epoca – 1984 - era il più importante al mondo. A ingaggiarlo fu la Roma, dove alzò una Coppa nazionale, ma soprattutto perse alla penultima giornata un campionato che pareva già vinto. Un contrattempo che gli impedì di spiccare il volo verso società più prestigiose. Finì allora alla Fiorentina e, dopo un biennio incolore, abbandonò l’Italia – dove lasciò uno splendido ricordo più per la signorilità che per il suo talento (un perdente di successo fu definito all’epoca) – e fece ritorno al Benfica, dove riprese a trionfare e a rifarsi una fama, tanto da essere richiamato dopo 3 anni nel Belpaese, stavolta alla Sampdoria, che era reduce dalla sconfitta nella finale di Coppa dei campioni contro il Barcellona (1992).

A Genova mise in bacheca una Coppa Italia, ma soprattutto stabilì un ottimo rapporto con Roberto Mancini, che poi portò con sé alla Lazio (1997) per aprire con lui il ciclo più glorioso della storia biancoceleste, culminato con la conquista del secondo scudetto del club (2000), oltre che di una Coppa delle coppe, un paio di Coppe Italia e una Supercoppa Europea. A Roma, Eriksson fece da chioccia e funse da esempio per numerosi giocatori destinati a diventare un giorno, come lui, eccellenti allenatori: oltre al Mancio, basti citare Simone Inzaghi, il Cholo Simeone e Matìas Almeyda.

Quello scudetto fu, a 52 anni, lo zenit della sua carriera, anche se ovviamente ancora non poteva saperlo. Sperava infatti che il meglio sarebbe giunto per lui alla guida dell’Inghilterra – primo Ct straniero sulla panca dei Tre Leoni – ma il quinquennio si rivelò sfortunato in campo e fastidioso nella vita privata, dato che fu costantemente bersagliato da fotografi e cronisti dei tabloid, molto più interessati alle sue storie d’amore che al suo 4-4-2. E, in seguito, come fanno un po’ tutti, accettò di andare ad allenare dove gli offrivano più soldi, transitando senza gloria dal Manchester City, il Leicester, la Nazionale messicana, quella ivoriana, quella filippina e una manciata di club – straricchi ma mai sentiti nominare - fra Thailandia, Emirati Arabi e Cina.

Ad ogni modo, Eriksson era pure un romantico, e lo dimostra il fatto che – durante questi ultimi mesi di commiato – aveva chiesto al Liverpool, la squadra che più amava, se poteva almeno una volta sedersi sulla sua panchina. E i Reds, ovviamente, glielo avevano concesso, in occasione di una gara fra vecchie glorie contro l’Ajax: perché l’ultimo desiderio di un gentiluomo va sempre assecondato.

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