La prima Coppa dei campioni conquistata dall’Inter nel lontano 1964 nel resoconto firmato dall’immarcabile scrittore
Dopo il lungo dominio iniziale madridista e il biennio di interregno targato Benfica, a imporsi come terza forza del calcio continentale fu la scuola italiana, che conquistò la Coppa dei campioni dapprima col Milan nel 1963 e poi firmò addirittura una doppietta grazie all’Inter, che alzò il trofeo nei due anni successivi. Parliamo di un’epoca ormai lontanissima, fatta di un gioco inevitabilmente figlio della sua epoca e assai diverso da quello praticato ai giorni nostri: era un football con regole diverse, caratterizzato da una lentezza inimmaginabile, dall’esasperante ricorso al retropassaggio raccolto dal portiere con le mani e da una durezza difensiva oggi semplicemente considerata criminale. Non mancavano però in quelle due squadre milanesi i piedi buoni, benché ingabbiati da dettami tattici che miravano soprattutto a non prenderle, più che ad attaccare e a creare. Gli allenatori Helenio Herrera (Inter) e Nereo Rocco (Milan), infatti, per quanto agli antipodi a livello di carattere e personalità, erano entrambi feroci sostenitori del catenaccio: l’unica differenza stava nel fatto che - mentre il triestino lo ammetteva - lo spagnolo sosteneva invece a spada tratta di praticare un gioco moderno, rivoluzionario e creativo. Non per niente lo chiamavano Mago e guadagnava il quadruplo di quanto veniva retribuito il rivale.
Ma assai diverso rispetto a oggi era pure il modo di raccontare il gioco, e ovviamente di fruirne. Senza la tecnologia di cui disponiamo nel presente, molto - se non tutto - era infatti demandato alla carta stampata o, al limite, alla radio. La televisione, infatti, ancora balbettante, faticava a coprire come si deve i grandi eventi sportivi, specie in Italia. Basti pensare che nel ‘63, in occasione della finale di Wembley fra Milan e Benfica - che si giocò alle 3 del pomeriggio di un mercoledì - la tv del Belpaese nemmeno si premurò di programmare la diretta, optando per una differita infilata nel palinsesto la sera… dell’indomani! Fortunati furono soltanto gli italiani del nord - sempre che a quell’ora non si trovassero in fabbrica o in ufficio - che riuscivano a captare le frequenze della Tsi, fra le pochissime emittenti europee che ritennero opportuno trasmettere in diretta l’atto conclusivo del torneo. La narrazione dell’evento, quindi, era lasciata quasi esclusivamente ai giornali. Importante era dunque - infinitamente più di oggi - il lavoro svolto dai cronisti chiamati a descrivere ciò che vedevano succedere sul campo. E fra loro c’era ovviamente Gianni Brera, che la professione del giornalista sportivo - in Italia - in pratica l’aveva inventata e che, proprio in quegli anni era al massimo della sua verve e della popolarità. Originalissimo ma comunque fedele il più possibile a quel che sul rettangolo di gioco si svolgeva quando stilava cronache per i quotidiani, Brera si sentiva invece molto più libero quando dipingeva gli strepitosi testi delle sue rubriche per i settimanali che, essendo per loro stessa natura affrancate dalla stretta attualità, gli consentivano di spaziare a piacimento fra i più disparati argomenti - oltre naturalmente allo sport - come ad esempio il cibo, l’arte, la caccia, la pesca, la storia, la geografia, i ricordi personali e l’aneddotica di ogni genere. Esemplare in questo senso è il resoconto che El Gioann fece della trasferta a Vienna al seguito dell’Inter che, al Prater, alla fine di maggio del 1964 conquistò la sua prima coppa dalle grandi orecchie, anche se all’epoca anche il trofeo era diverso rispetto a oggi e i suoi manici non erano poi così sovradimensionati.
Ancor prima di partire, in coda al pezzo su un Samp - Inter giocato alla vigilia della trasferta viennese, Brera aveva tenuto a puntualizzare che, per lui, il viaggio che avrebbe intrapreso di lì a qualche giorno altro non era che un ritorno alle origini, essendo stata sua nonna ungherese: suo nonno, infatti, nato e vissuto in Lombardia quando quella terra apparteneva all’Impero austro-ungarico, era partito per svolgere il servizio militare verso chissà quale lontana plaga sperduta nella puszta, e da lì se n’era poi tornato a casa in compagnia di una giovane contadina magiara che sarebbe presto divenuta sua sposa. “Gh’è rivàa i zìngor, gridavano i bambini del paese”, vedendo i due antenati del giornalista varcare i confini del villaggio pavese dove poi lui sarebbe nato in compagnia di due cavalli malconci e un carretto che pareva un conestoga del Far West (Arcimatto, Guerin Sportivo, 25 maggio 1964).
“Vienna ha la sottoveste rosata e le spalline pulite ma lise. Vi cantano merli mattacchioni”, così si apre invece il diario di quei giorni lungo il Danubio nella lontana primavera di quasi sessant’anni fa. “Vienna somiglia le piccole borghesi che ho veduto in sottoveste”, continuava poche righe più sotto. Roba che, se uno azzardasse scriverla oggi, verrebbe come minimo preso per matto. E poi, ovviamente, non tralascia la puntata nel night dove i giornalisti italiani infoiati si tuffarono appena depositate le valigie in albergo. L’Italia, è vero, era nel pieno del suo boom economico, ma nel costume era ancora indietro ere geologiche rispetto al Nord o alla Mitteleuropa. “I pochi viennesi in sala sono venuti per guardare noi, che urliamo a tutta gola”, scriveva ricordando la reazione dei suoi colleghi all’apparire sul palco della prima entreneuse avvolta di sola carta argentata. E aggiungeva, morto di vergogna, che addirittura “uno zingaro ci gridò: silenzio!” In seguito, dopo aver elogiato il vino (Gumpoldkirchen), si lanciava nel resoconto di una partita giocata fra giornalisti e suiveurs di vario tipo sullo stesso campo dove si stava allenando l’Inter in vista della finalissima. Subisce un paio di fallacci da colleghi romani, mettendo in allarme la moglie del presidente nerazzurro Angelo Moratti, che assiste interessata, ed è costretto, su ordine del medico sociale della squadra meneghina a lasciare anzitempo la battaglia. Senza tralasciare - da narciso qual era - il fatto che Mario Corso, stella di quell’Inter, gli si avvicinò dicendo: “Però si vede che ha giocato”. Brera, infatti, a quindici anni orbitava fra i Boys del Milan, e non perdeva occasione di ricordarlo a tutti. Tanta e tale era la sua fama di conoscitore del gioco da indurre Herrera a chiedergli consiglio sulle marcature da affidare ai suoi giocatori. Stando a quella cronaca, dunque, sarebbe stato Brera stesso a decidere chi dovesse marcare Puskas e Di Stefano. Nessuno, tantomeno lo stesso Herrera, si è mai preoccupato di smentire quanto riportato sul giornale, e c’è quindi da scommettere che si trattasse della verità. Tempi remoti, si diceva, roba che oggi nemmeno si riuscirebbe a concepire. E quando finalmente si dedica al racconto di quanto avvenne in campo nel corso di quella finale, ecco che razza di prosa serviva Brera ai suoi fortunati contemporanei: “I lipizzani si ammucchiano davanti a Sarti. Manfrine tumultuose. Nostra difesa spazzante. Due volte va via Amancio e due volte lo raggiunge Facchetti a lunghe falcate giamaicane: l’arbitro gli fischia due falli ingiusti, dovuti alla mole, non alla volontà (capitava anche a Charles). Mazzola pestato e quasi nullo (torno a bestemmiare dentro): ed eccolo, il satanello, rubare una palla a Santamaria e darla a Milani, e Milani stringere parallelamente al fondo, e da diciotto metri battere il destro più carogna e subdolo di questa terra. Vicente comincia a trepestare prima del tuffo: quando si decide, la palla incarognita l’ha superato sfiorando il palo: due a zero. Gesù: sembra fatta!” (Arcimatto, Guerin Sportivo, 1° giugno 1964).
Se non è arte sublime questa, staccata da ogni canone, ditemi voi di cosa si tratta. Per la cronaca, i nerazzurri di Mazzola, Suarez e Picchi quella sera sconfissero 3-1 il Real Madrid di Zoco, Felo e Gento e, come detto, conquistarono la loro prima Coppacampioni. Ma, in mezzo a tanta grazia d’altri tempi, è quasi mero dettaglio.