Milan e Inter, club dal nobile palmares europeo, tornano domani ad affrontarsi in semifinale di Champions, proprio come era accaduto vent’anni fa
Storia antica quella fra la Coppa dei Campioni e il capoluogo lombardo, unica città che abbia conquistato il massimo trofeo continentale con due squadre diverse. La romance inizia nei primi anni Sessanta, dopo l’iniziale tirannia sul torneo esercitata dal Real Madrid e il biennio d’interregno firmato Benfica. Tempi lontani, eroici, fatti di partite spesso nemmeno trasmesse in tv (bianco e nero), di palloni stringati di cuoio grezzo, e di un calcio molto tecnico ma lentissimo, così antico che ancora nemmeno prevedeva i cartellini e le sostituzioni.
Il primo club meneghino a mettere in bacheca la Coppa dalle grandi orecchie – che però all’epoca, prima del restyling del trofeo del 1967 erano ancora piccine – fu il mitico Milan di Nereo Rocco, tecnico sanguigno e figlio di un macellaio austriaco (prima del fascismo si chiamava Roch) che al porto di Trieste riforniva di carne i bastimenti diretti in ogni angolo del mondo. Dopo aver portato in alto Triestina e Padova – terzo posto in Serie A – El Paròn fu chiamato al Milan dal presidente-editore Andrea Rizzoli, affascinato da quell’allenatore da trincea che in provincia, alla guida dei cosiddetti Poaréti, era riuscito a sconfiggere sonoramente tutti gli squadroni delle grandi città.
Certo, quello proposto da Rocco – persona intelligentissima ma pittoresca che si esprimeva solo nel dialetto natio – non era un calcio troppo spettacolare. Anzi, le sue fortune si basavano sul più ortodosso dei catenacci. Ma si trattava di un gioco assai efficace, e infatti appena giunto al Milan il tecnico giuliano fece doppietta: scudetto nel ’62 e Coppa Campioni l’anno seguente.
Profeta del difensivismo a oltranza era pure il coach interista Helenio Herrera, che però era furbo: e così, siccome ammetterlo era cosa di cui vergognarsi, negava spudoratamente. Il bello è che, a furia di sentirselo ripetere, giornalisti e tifosi finivano per crederci, e a lungo andarono avanti illudendosi di veder giocare – con le maglie nerazzurre – il Real di Puskas, Gento e Di Stefano. Del resto, se lo chiamavano Mago un motivo ci sarà pur stato, e infatti guadagnava cinque volte più di Rocco, che smaltiva la rabbia a tavola e in osteria con gli amici più fidati e con vini strepitosi.
Herrera, maestro di ginnastica (diplomato alle scuole serali, puntualizzava Gianni Brera che non lo stimava), era invece astemio e salutista: non era però contrario alla somministrazione ai suoi giocatori di anfetamine, convinto assertore della teoria secondo cui i residui della sostanza psicotropa potessero essere facilmente smaltiti sorbendo decotti di noccioli di ciliegia.
Nato in Argentina, cresciuto tra Francia e Marocco e affermatosi come allenatore in Spagna, il poliglotta HH era quanto di più diverso potesse esistere dal Paròn, e la rivalità fra i rossoneri e i nerazzurri – che vinsero le due successive edizioni della Coppa dei Campioni (’64 e ’65) – si resse in quegli anni anche sull’opposizione caratteriale fra quei due leggendari personaggi, forestieri che divennero milanesi senza mai divenire prima italiani. Forgiati con materiali incompatibili fra loro, i due tecnici rappresentavano fra l’altro al meglio il Dna dei due club ambrosiani: il ruvido Rocco alla guida dei Casciavìt, il raffinato Herrera condottiero dei Baüscia.
Non fu un caso se a lasciare un’impronta indelebile sul calcio continentale negli anni Sessanta (anche i rossoneri fecero il bis nel ’69) fu proprio Milano, motore del boom italiano e città cresciuta fino a diventare metropoli. Spesso, infatti, all’accresciuto benessere economico di una metropoli si accompagna un conseguente fermento a livello culturale, intellettuale e anche sportivo.
Prima di vedere di nuovo le due compagini meneghine protagoniste nella stessa epoca in Coppa dei Campioni – che nel frattempo era diventata Champions League – dovettero passare quasi quarant’anni: parliamo del 2003, quando interisti e nerazzurri, proprio come nella stagione in corso, si erano addirittura ritrovati a sfidarsi in semifinale. L’Inter l’anno prima aveva gettato alle ortiche un campionato già vinto, suicidandosi contro la Lazio (2-4) nell’ultima gara di campionato: venne superata sia dalla Juve (campione d’Italia) sia dalla Roma, e fu dunque costretta ad accedere alla Champions passando dai preliminari, come del resto era toccato al Milan.
Le due compagini meneghine erano dirette da allenatori considerati perdenti: Cùper aveva perso 3 finali europee consecutive – una Coppa delle Coppe sulla panca del Maiorca e due Champions League alla guida del Valencia – oltre al già citato scudetto, mentre Ancelotti era giunto due volte di fila secondo in Italia con la Juve, e a 44 anni aveva vinto solo un’Intertoto. Il titolo nazionale 2003, oltretutto, era già andato ai bianconeri: chi fosse uscito sconfitto da questi due derby europei, lo scrivevano tutti i giornali, sarebbe stato dunque licenziato. Chi invece fosse uscito vincitore sarebbe volato a Manchester per affrontare nella finale più importante della stagione Juventus o Real Madrid. La posta in palio, non c’è bisogno di dirlo, era quindi altissima.
In città non si parlava d’altro, e la caccia ai biglietti – già per la gara d’andata in casa del Milan – fu feroce, spietata, e fruttò ai bagarini cifre inimmaginabili. La tensione era altissima: paura e speranza, in modo schizofrenico, tenevano in ostaggio i tifosi di entrambe le sponde. Gli interisti lamentavano l’assenza del bomber Vieri, messo ko nei quarti di finale a Valencia dal teppista Materazzi, uno che in battaglia non stava troppo a guardare se sparasse ai nemici o ai commilitoni. Sull’altro fronte a marcare visita era invece Pirlo, genio del centrocampo rossonero. A Milano nel pomeriggio del 7 maggio c’erano 30 gradi, preludio di un’estate – quella del 2003 – che si sarebbe rivelata la più calda degli ultimi due secoli. All’entrata in campo, a farla da padrona era la paura: facce tese, pallide, terrorizzate.
Cùper, lo si capì subito, pensava solo a difendersi. Prudente era pure Ancelotti, trattandosi di una sfida di andata e ritorno, ma è innegabile che a creare e a concludere di più siano stati quella sera i rossoneri. Senza nemmeno un ammonito – a conferma del braccino emerso su entrambe le panchine – la prima gara terminò 0-0, come Cùper sperava, ma si trattava di un risultato che, a ben guardare, in vista della gara di ritorno favoriva maggiormente il Milan. In Inghilterra, davanti a uno spettacolo così deprimente, appassionati e giornalisti gongolarono: “San Zero” titolò il Daily Mail.
In città, i sei giorni che conducevano al match-retour furono ancor più tesi di quanto già vissuto: i dirigenti delle due squadre, gli staff tecnici e naturalmente i tifosi sferrarono verso i rivali tutti i colpi che, in campo nel corso della prima partita, erano invece rimasti in canna ai giocatori.
Provocazioni, accuse reciproche, illazioni messe in giro appositamente per destabilizzare il fronte nemico: nulla fu lasciato al caso nell’attesa del “redde rationem”. Tutti credevano che Cùper, barricatosi all’inverosimile sul campo del Milan, avrebbe certo osato di più sul proprio terreno, ma nell’11 di partenza, dietro a Crespo e Recoba, di qualità tecnica non se ne scorgeva poi troppa: la linea mediana nerazzurra era infatti formata da Javier Zanetti, Cristiano Zanetti, Emre, Di Biagio e Conceiçao, segno che il tecnico argentino – più che vincere – voleva probabilmente blindare di nuovo lo 0-0 e andare ai supplementari, o ancor meglio ai rigori. Molto più propositivo si mostrò invece Ancelotti, che dietro a Sheva e Inzaghi piazzò i piedi educati di Rui Costa, Seedorf e Pirlo.
E il coraggio infatti, nel derby della Madonnina numero 255, premiò il coach emiliano: fra tanta mediocrità tecnica, a prendersi la responsabilità della creazione del gioco interista fu… Materazzi (!) e Carletto cominciò a crederci per davvero. Al contrario di quanto visto all’andata, la seconda gara fu assai violenta: i colpi proibiti, rusticani assai, non risparmiavano nessuno e l’arbitro francese Veissière faticava a calmare gli animi. Quando mancavano pochi secondi al riposo e tutto faceva pensare che in pausa si sarebbe andati sullo 0-0, Seedorf – a cui i nerazzurri lasciarono troppa libertà – servì a Shevchenko una palla in area che l’ucraino, trascurato da Cordoba, infilò alle spalle di Toldo.
Segnato in trasferta, era un gol potenzialmente pesantissimo: i piani ultra-sparagnini di Cùper erano saltati e, per forza di cose, l’argentino fu costretto a fare qualcosa. Tolse dalla contesa un men che evanescente Recoba e lo sostituì con ‘Oba Oba’ Martins, diciottenne nigeriano da poco aggregato alla prima squadra che diventerà famoso per i flic-flac con cui festeggiava i propri gol. Il Milan quell’anno, in tre partite e mezza, non aveva subito alcun gol dall’Inter, e certo nessuno si aspettava che a bucare la porta di Abbiati (che sostituiva l’infortunato Dida) sarebbe stato il folletto africano. E invece, ovviamente, a riaprire la gara fu proprio il ragazzino, che al minuto 83 mise in ridicolo l’esperta ma ormai senescente retroguardia rossonera, specie Maldini e Costacurta, nell’occasione inguardabili.
La rete di Martins diede la carica ai padroni di casa, che nella manciata di minuti che restavano da giocare tirarono verso la porta avversaria più di quanto non avessero fatto nei 175 minuti precedenti. I rossoneri caddero preda del panico, le occasioni interiste si moltiplicarono, e a salvare l’1-1 fu Abbiati, che con un paio di parate miracolose regalò al Milan il biglietto per Manchester, dove ai calci di rigore avrebbe sconfitto in finale la Juventus nell’unica finale di Champions League tutta italiana finora mai giocata.
Il derby meneghino, sempre nell’ambito del massimo trofeo continentale, si ripropose di nuovo un paio d’anni dopo, stavolta ai quarti di finale. Molto meno combattuta – doppio netto successo rossonero 2-0 e 3-0 – quella stracittadina viene ricordata soprattutto per le intemperanze dei tifosi interisti, che nel corso della gara di ritorno, frustrati per l’ennesimo risultato negativo dei propri beniamini, presero a lanciare in campo di tutto, fra cui fumogeni e petardi.
A essere raggiunto e colpito al capo fu il portiere milanista Dida, che stramazzò al suolo. Le squadre furono spedite negli spogliatoi nella speranza, vana, che la furia degli ultrà infine si placasse. Richiamati gli atleti in campo dopo 25 minuti, si tentò di riprendere a giocare, ma la guerriglia si riaccese peggio di prima. Quella partita, di cui circola una famosa immagine con Rui Costa e Materazzi – avversari – abbracciati in campo davanti a scene raccapriccianti, non poté mai essere conclusa.