Il Porto, che stasera sfida l’Inter nel ritorno degli ottavi di Champions, vinse il suo primo trofeo continentale in una serata memorabile del 1987
A regalare una nuova Coppacampioni al Portogallo 25 anni dopo il doppio trionfo del Benfica fu il Porto che, 36 anni fa, sconfisse il Bayern Monaco nella finale giocata al Prater di Vienna. E lo fece da outsider, dato che fin lì, al contrario dei tedeschi, i Dragoni in Europa non avevano mai contato nulla: potevano vantare infatti solo una finale di Coppa delle coppe persa a Basilea contro la Juve nel 1984.
Alla squadra sconfitta al Sankt Jakob, nei tre anni seguenti erano stati aggiunti ottimi innesti – ad esempio il portiere Mlynarczyk e i fantasisti Madjer e Futre – ma l’innalzamento del tasso tecnico non veniva ritenuto tale da poter impensierire i bavaresi che, per quanto soltanto una brutta copia dello squadrone che aveva dettato legge dozzina d’anni prima, godevano alla vigilia dell’unanime favore dei pronostici.
Del Porto, oltretutto, si diceva che fosse giunto fino all’atto conclusivo del torneo soltanto per fortuna sfacciata. Sul suo cammino, infatti, aveva incontrato solo squadrette, se si eccettua la Dinamo Kiev del colonnello Lobanovksy eliminata a fatica in semifinale: Rabat Ajax (Malta), Vitkovice (Cecoslovacchia) e Brøndby (Danimarca).
Ma a far pendere definitivamente l’ago della bilancia a favore del Bayern era l’assenza fra le file portoghesi di Fernando Gomes: cannoniere storico dei biancoblù, della nazionale lusitana e di quell’edizione della Coppa dei campioni, l’attaccante si era fratturato una gamba pochi giorni prima della finale.
Insomma, proprio non si vedeva in che modo il Porto avrebbe mai potuto vincere il trofeo contro i campioni di Germania, che in porta schieravano una leggenda come il belga Jean-Marie Pfaff, in difesa i polmoni di Andreas Brehme e a centrocampo il fosforo di Lothar Matthäus. Per la verità, anche l’attacco non era male, anche se le punte titolari erano soltanto imparentate ai due grandi panzer dei bei tempi andati: parliamo del 23enne Michael – fratello di Kalle Rummenigge – e del 34enne Dieter Höness, cadetto del più celebre Uli.
Impari sembrava del resto pure il confronto fra i due allenatori. Sulla panca bavarese sedeva infatti (al suo secondo mandato) un mito – Udo Lattek – l’uomo che tre lustri prima aveva aperto il ciclo più vincente della storia del Bayern e che, come Trapattoni, aveva conquistato da tecnico tutte le Coppe esistenti. A guidare i Tripeiros, invece, c’era un quarantenne semisconosciuto che, prima, aveva allenato solo a Portimao, nell’Algarve.
Mai pronostico fu più facile da stilare, dunque, e i primi minuti della finale – diretta dal celebre fischietto belga Alexis Ponnet – non fecero che suffragare le previsioni di tutti: pallino del gioco in mano ai tedeschi, che al 25’ erano già passati in vantaggio con Kögl, lasciato libero di incornare da una retroguardia lusitana che pareva sotto l’effetto di droghe di nuovissima sintesi.
La pressione tedesca era asfissiante e i portoghesi potevano solo augurarsi di giungere all’intervallo senza subire altri gol, sperando che il loro tecnico, con qualche sostituzione, riuscisse nella ripresa ad arginare gli attacchi teutonici. Fra le riserve biancoblù c’era Walter Casagrande, gigante paulista appena arrivato dal Corinthians, ma Artur Jorge saggiamente preferì al 46’ mandare in campo Juary, punta carioca leggera, sgusciante e velocissima che avrebbe potuto mettere in ambasce la retroguardia tedesca, composta tradizionalmente da armadi piuttosto statici. A fargli spazio fu Quim, centrocampista munito di clava.
E l’andazzo in campo, si vide subito, mutò radicalmente, coi portoghesi – in crescita – che finalmente iniziarono a calciare con una certa frequenza verso la porta di Pfaff, specie grazie ai piedi educati di Futre e Madjer. Il gol, però, non arrivava, e le speranze lusitane presero a vacillare in una battaglia che, col passare dei minuti, si fece sempre più fallosa, su entrambi i fronti. Ma poi, quando al termine mancavano ormai soltanto dieci minuti, Juary ricevette da Frasco – pure lui subentrato – una palla all’altezza del dischetto del rigore, lasciò sul posto il suo marcatore e, scavalcando Pfaff con tocco delizioso, servì a Madjer una palla così facile da mandare in porta che l’algerino decise di farlo colpendola col tacco destro. Una finezza che, oltre a regalare al Porto un pareggio che pareva ormai chimera, fece di Rabah Madjer un calciatore di fama mondiale.
Il magrebino, intendiamoci, non era l’ultimo arrivato, con la sua nazionale aveva già disputato due Mondiali: e in Spagna, addirittura, aveva segnato uno dei due gol con cui i nordafricani batterono la Germania Ovest nella fase a gironi. Ma è innegabile che quel gol segnato di tacco al Prater nella finale di Coppa dei campioni – passato alla storia come il Tacco di Allah – lo fece entrare nella leggenda. E il suo cognome, proprio come quello di Biro, Diesel e Montgomery, diventò un sostantivo: da quel giorno in diversi Paesi (ad esempio in Francia) una rete segnata di tacco viene chiamata infatti ‘une madjer’.
Tre minuti più tardi fu proprio l’algerino a ricambiare il favore a Juary: discesa travolgente sulla sinistra, cross pennellato e piatto destro del brasiliano ad appoggiare in rete da due passi. Contro ogni previsione, un risultato che pareva ormai inciso nel marmo era stato ribaltato: i tedeschi, come investiti da un tram, non furono più in grado di reagire e la Coppa dalle grandi orecchie prese dunque la via di Porto, città fin lì conosciuta soltanto per il suo vino dalla fermentazione artificialmente interrotta.
Lo stato di grazia accompagnò gli azuis e brancos ancora per parecchi mesi, fino alla conquista della Supercoppa (contro l’Ajax, stavolta quello vero) e dell’Intercontinentale (contro il Peñarol). La gara contro gli uruguaiani venne decisa al supplementare da un altro gol di Madjer, che quell’anno vinse in carrozza il Pallone d’oro africano.
Di lui si innamorò il presidente interista Ernesto Pellegrini, che lo volle a tutti i costi. Il trasferimento a Milano saltò proprio al momento di vergare l’autografo sul contratto: i medici dissero che il magrebino presentava una lesione muscolare che ne avrebbe assai limitato il rendimento in campo. La delusione fra i nerazzurri, ad ogni modo, durò poco: al posto dell’algerino infatti fu ingaggiato in prestito dalla Fiorentina Ramon Diaz, che insieme ai già citati Brehme, Matthäus e Trapattoni regalò al presidente lo scudetto dei record (‘88-’89).
La Coppacampioni miracolosamente conquistata quella lontana sera di primavera fu provvidenziale pure per il 21enne Paulo Futre, che quell’anno si piazzò secondo nel Pallone d’oro, dietro Gullit e davanti all’Avvoltoio Butragueño. La sue quotazioni di mercato – e i suoi ingaggi – aumentarono esponenzialmente, permettendogli di arricchirsi benché la sua carriera, istoriata di infortuni, terminò in pratica a 26 anni, dopo la positiva esperienza all’Atletico Madrid, di cui divenne un idolo. Passato alla Reggiana – e in attesa di accasarsi al Milan – un difensore improvvido gli fece saltare il ginocchio e non riuscì mai più a ristabilirsi del tutto.
Il trofeo vinto al Prater il 27 maggio dell’87 fu foriero di maggior fortuna per Artur Jorge, che immediatamente dopo il trionfo abbandonò la panca del Porto per andare a monetizzare in almeno tre diversi continenti. Fra le sue numerose panchine ci fu pure quella della nazionale rossocrociata, che ereditò da Roy Hodgson qualche mese prima di Euro 96: l’inglese aveva ceduto alle lusinghe di un altro presidente interista – Massimo Moratti – che fortissimamente lo volle ad Appiano Gentile.
E Juary? Il brasiliano rimase in riva al Douro soltanto un anno ancora, prima di tornarsene, a 29 anni, nella sua terra natale. Del resto, i capitoli più interessanti della sua carriera – e della sua vita – erano già stati scritti. Stellina del Santos, a vent’anni aveva disputato una Copa América con la maglia della nazionale verdeoro ed ebbe la fortuna di scendere in campo nella partita d’addio di Pelé.
Dopodiché, appena riaperte le frontiere nel Belpaese, era stato ingaggiato nel 1980 dall’Avellino del presidente Antonio Sibilia. Fu, sul finire dell’estate, il primo straniero ad andare in gol (in Coppa Italia contro il Catania) e diventò immediatamente beniamino e idolo dapprima dei tifosi irpini e poi dell’Italia intera.
Tanto affetto era figlio del suo modo assai pittoresco di esultare dopo un gol: correva verso la bandierina del corner più vicina e vi danzava attorno, compiendo tre giri. Lasciato il sud dopo un paio di positive stagioni, risultò poi deludente nell’Inter (di nuovo i nerazzurri!), nell’Ascoli e alla Cremonese. Il suo passaggio in Italia, dunque, rimase indissolubilmente legato al suo periodo avellinese. Dopo poche settimane in Campania, un giorno Sibilia lo caricò in macchina senza spiegazioni. Stava andando a presenziare a un’udienza processuale che vedeva imputato nientemeno che Raffaele Cutolo, boss della Nuova camorra organizzata. Sibilia e il padrino si salutarono scambiandosi baci attraverso la ‘gabbia’ e il giocatore fu invitato a consegnare al mafioso una medaglia – 70 grammi d’oro – con incisa la testa di un lupo e le parole ‘A Don Raffaele Cutolo dall’Avellino calcio’.
Il solo giornalista che ebbe il coraggio di riportare l’accaduto fu Luigi Necco, che non era soltanto uno dei volti più popolari di Novantesimo Minuto, ma pure un bravo cronista di nera. E scrisse che Sibilia altro non era che un camorrista. Il presidente dell’Avellino chiese allora a Cutolo di far eliminare il buon Necco, ma il boss si rifiutò, essendo il giornalista troppo in vista, troppo popolare e pure troppo simpatico.
A gambizzare Luigi Necco in un ristorante con 3 colpi di pistola, qualche mese dopo, furono allora tre uomini di Vincenzo Casillo, luogotenente di Cutolo che volle prendere, pare, un’iniziativa personale. Necco, pur a fatica, per fortuna si rimise in piedi e riprese a fare – bene – il suo lavoro.