In un libro di recente pubblicazione, scelte di vita, personalità ed eredità del campione italiano scomparso per una malattia all’inizio di quest’anno
“C’è stato anche un aspetto polemico nel mio rifiuto di rilasciare interviste, ma il motivo vero è che mi aveva preso una specie di nausea da banalità. L’esigenza di manifestarsi davanti all’opinione pubblica è sempre stata la parte più pesante del mio lavoro. Altri lo fanno con gioia, con facilità: non li critico, ma io sono diverso”. Gianluca Vialli non avrebbe potuto cesellare un autoritratto più veritiero.
Mentre i suoi colleghi, opportunamente ammaestrati, si rifugiavano, come oggi, dietro le consuete, rassicuranti supercazzole (sono contento che il mister abbia fiducia in me, credo nel progetto, darò il massimo, noi giochiamo per vincere), Vialli regalava spunti, provocazioni, lampi di intelligenza. Come una svista, come un’anomalia, come una distrazione, come un dovere, in un ambiente che ama rotolarsi negli stereotipi e raccontarsi attraverso formule che risparmiano la fatica di pensare.
La biografia di Marco Gaetani ‘Gianluca Vialli, l’uomo nell’arena’ – appena pubblicata da 66thand2nd – rende giustizia all’unicità di un campione in perenne fuga dalla prevedibilità e dall’ovvietà. Innanzitutto da giocatore, assommando caratteristiche apparentemente inconciliabili: agilità e muscolarità, atletismo e furbizia, istinto da centravanti e disponibilità al sacrificio per i compagni di reparto, l’essenzialità unita al gusto per le giocate difficili, un’interpretazione moderna e totale del ruolo, troppo ampia per le anguste vedute sia degli allenatori tradizionalisti, sia degli integralisti del 4-4-2 di stretta osservanza sacchiana. Ma Vialli non è stato solo un devastante uomo d’area.
Leggiamo questa dichiarazione: “A un bambino direi che il calcio è gioia, che ti permetterà di crescere, di migliorare, di imparare a stare in un gruppo. E poi il rispetto delle regole, a rialzarti quando hai una battuta d’arresto e a cercare di superare sempre i tuoi limiti. Direi di non arrendersi se qualcuno ti dice che non hai talento. Il talento può essere la fine di un percorso, non necessariamente l’inizio. Bisogna sempre imparare. Bisogna avere doti che non hanno a che fare col talento: la determinazione, il rigore, l’abnegazione, l’energia, l’etica, la serietà, la puntualità. Il talento può essere un dono, ma anche una conquista”.
Vialli è stato tutto questo e lo ha dimostrato con l’esempio, trascinando i compagni, da uomo-spogliatoio e da guida tecnica ed emotiva in campo: un moltiplicatore di motivazioni e di stimoli, che amava sintetizzare in una formula magica a beneficio dei giocatori più giovani: lavoro, onestà e due palle così.
Tra i tanti episodi, scegliamo la sua reazione al doppio vantaggio con cui la Fiorentina sta punendo la Juventus al Delle Alpi di Torino. È il 4 dicembre 1994 e manca un quarto d’ora alla fine dell’incontro. Vialli segna di testa la rete dell’1-2 e, anziché esultare, si impadronisce del pallone e, al termine di una corsa in cui respinge gli inviti all’esultanza dei compagni, lo deposita nel cerchio di centrocampo. E ora vediamo cosa sapete fare, sembra dire agli avversari. Tre minuti più tardi segnerà il goal del pareggio, poi una rete da fantascienza rivelerà al mondo il genio di Alessandro Del Piero.
Ma Vialli non è stato banale neanche nelle scelte di mercato, come Gaetani fedelmente ricostruisce. Se il corteggiamento della Juventus fu accettato per salvare le disastrate finanze della Sampdoria, durante gli anni felici di Genova aveva più volte respinto il corteggiamento di Silvio Berlusconi, uno poco abituato ai rifiuti.
Adriano Galliani, plenipotenziario del Milan pronto a snocciolargli informazioni sulla squadra (fortissima), sulle strutture di allenamento (avveniristiche), sullo stipendio (l’ultimo dei problemi), tutto si aspettava fuorché una domanda fintamente ingenua, alla Garrincha: “Ma a Milano c’è il mare?”. “No”, fu la risposta, dopo un attimo di comprensibile smarrimento, “ma c’è un bel laghetto a Milano 2”. “Troppo poco”, fu la valutazione finale, e non ci fu modo di riaprire il discorso.
Dieci anni più tardi, nella parte finale della carriera, lasciata la Juventus dopo la conquista della Champions League, si sarebbe trasferito in Inghilterra, al Chelsea, in una squadra allora di secondo piano e in un periodo in cui emigrare, per un calciatore italiano, voleva dire sminuirsi, mollando il campionato più bello e più difficile del mondo per un calcio meno evoluto e interessante. Abbandonando, però, anche una stampa che Vialli si divertiva a spiazzare.
Qui l’aneddotica è inesauribile. Spazientito da quanti prefiguravano un suo arretramento negli schemi di gioco della Juventus, per favorire la fantasia di Roberto Baggio, la rapacità di Ravanelli, gli inserimenti di Del Piero, rivelò che in effetti avrebbe giocato sempre più indietro e che avrebbe terminato la stagione da portiere. Qualcuno ci cascò.
Era il suo modo per affrontare, esorcizzandolo, un disagio reale, ammesso in diretta televisiva con una sincerità insolita nel calcio: “Mi piacerebbe ritornare alla Sampdoria: ha un gioco adatto alle mie caratteristiche. La stagione alla Juventus non mi soddisfa, sono le due società che devono trovare un accordo”.
E ancora: “La verità è che non sono contento, non sono realizzato, non sono felice. Mi sono sacrificato per non rovinare certi equilibri e ho pagato due volte: non ho più trovato il gol e ho perso la Nazionale. Se dovessi continuare a giocare così, non indosserei mai più quella maglia. Spero che le cose siano cambiate davvero”.
E invece non cambiarono: poco incisivo nelle partite più importanti, fastidioso per i manovratori quando apriva bocca, non indossò più la maglia azzurra. Non qualificata agli Europei del 1992, l’Italia fu a un passo dal ripescaggio per via del rimescolamento geografico seguito al crollo del blocco comunista. Vialli fu l’unico a dirsi contrario all’ipotesi: “Mi sembrerebbe di rientrare dalla finestra quando ti hanno cacciato dalla porta”. Due anni più tardi, dopo un deludente e noioso pareggio contro la Slovenia: “Non c’è troppa simpatia per questa Nazionale, forse perché i tifosi la identificano con Sacchi e Matarrese che simpatici non sono”. Sacchi, l’allenatore della Nazionale, e Matarrese, il presidente della Federazione Italiana Gioco Calcio, ossia uno degli uomini più potenti dello sport italiano.
Con meno spavalderia ma con più coraggio Vialli avrebbe affrontato il tumore al pancreas: “Credo che sia un privilegio sapere che c’è una scadenza. Ti permette di avere il tempo di fare tutte le cose che non avresti fatto andando via all’improvviso. So che ho il dovere di comportarmi in un certo modo nei confronti delle mie figlie, di mia moglie, perché non so quanto ancora vivrò. Questo ti dà l’opportunità di sistemare le cose. La malattia non è esclusivamente sofferenza, ci sono dei momenti bellissimi. Non ti dico che arrivo al punto di essere grato nei confronti del cancro ma non la considero una battaglia: se mi mettessi a fare una battaglia ne uscirei distrutto. Lo considero un compagno di viaggio che spero che prima o poi si stanchi”.
Parole che, come al solito, qualcuno equivocò, ma che per tanti altri furono un invito a non farsi cadere le braccia. Ed è anche per questo che non dimenticheremo Gianluca Vialli.