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‘Carmelo Bene, male tutti gli altri’

In un libro di recente pubblicazione vengono raccolti alcuni degli scritti a sfondo sportivo firmati da un maestro del teatro italiano del Novecento

28 gennaio 2023
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Molti anni dopo, di fronte a un ritaglio di giornale, il titolare del ristorante in cui la Roma aveva festeggiato il secondo scudetto si sarebbe ricordato del travaso di bile procuratogli dalla lettura di queste insolenti parole: "Ora il sugo colava anche dagli occhi già inguainati nel prosciutto, spruzzato degli aceti immondi. E nessuno che, nemmen per celia, s’assumesse il rifiuto estetico del vomito".

Il giornalismo sportivo italiano era allora meno sgangherato e approssimativo e la trasformazione del calcio in uno sgraziato reality show era così recente che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava aver letto qualche libro. Altrimenti non si sarebbe potuto proseguire il pezzo descrivendo sullo stesso tono gli infausti effetti del catastrofico pasto ("intransigente esige maleodorante imeneo di contenuto e forma"), né dando conto con altrettanta eleganza del raccapriccio provato all’ascolto di trombonate e sproloqui ("oh mio terror, se forte chiusi gli occhi temendo un manrovescio sul volto tentatore del paroliere, a documento perverso dell’esistenza di Dio").

Cronisti hooligan

L’irriguardoso cronista era il sommo Carmelo Bene, che quando non appariva alla Madonna scriveva per le pagine sportive de Il Messaggero, prendendo così seriamente l’impegno da intervenire in televisione in rappresentanza del giornale.

E non per sciorinare luoghi comuni, né per sventagliare pettegolezzi da spogliatoio, come dimostra la raccolta dei suoi articoli ‘In ginocchio da te’, edita da Gog nella collana Contrasti: Carmelo Bene giornalista non è stato un ossimoro da fumetto disneyano (Topolino astronauta, Nonna Papera sindaco, Paperino pilota di linea…), ma un osservatore dannatamente attento e competente, appassionato ma mai, per nessuna ragione, tifoso. Il tifoso anzi, nella sua visione, è l’embrione di un hooligan, che non ha ancora realizzato le proprie congenite e ineludibili potenzialità delinquenziali. Meno è criminale, meno è tifoso: "Il teppista consiste perché una volta per tutte ha rotto il guscio del tifoso obsoleto che lo conteneva in fieri. Il tifoso è un teppista in camicia di forza. Il teppista è un professionista del tifo. È solo lo sport di squadra che eccita lo squadrismo degli spalti".

E solletica l’inciviltà dei colleghi: "Il derby capitolino. Ho avuto la sciagura di visionarlo in tribuna stampa. Altro che gazzette! Occhiatacce, insulti, turpiloquio e nemmeno colorati dal minimo fil di fumo d’intelligenza avvenire. Ma perché non li sistemano in curva questi sedicenti giornalisti?"

Il malinteso di Spagna 82

A differenza di costoro, Bene interpretava la critica sportiva come un’estensione della sua estetica, era un mendicante di bellezza che disapprovava il pavido e gretto difensivismo del catenaccio, un modulo "saltato, sfasciato e arrugginito", buono per salesiani e postelegrafonici, adatto a un campionato in cui "la mentalità terzina e terziaria va ammorbando ancora e sottraendo al gioco il suo fascino".

Una squadra italiana è infatti composta da "undici difensori a piede libero", che negli schemi assassini dell’allenatore, un autentico secondino del risultato, eseguono compiti "da affidare alle schede del Lombroso, e di lì alle cartelle cliniche dell’ortopedico, se tutto va bene".

La tattica è "ammaestramento della scurrilità", "ignobile attentato al gioco" che insinua nella spensieratezza del gioco il concetto di finalità, e dunque lo altera e lo deturpa, esaltandosi nella marcatura a uomo, "che esige a bordo campo uno staff di medici, infermieri, barelle, cani da guardia. Le partite sono festival del trauma ortopedico. All’eccessiva velocizzazione del gioco fa eco uno sfrigolio di tibie": conseguenza anche dello sciagurato ricorso alla marcatura a uomo, retaggio delle antiche tribù antropofaghe.

Il calcio all’italiana, insomma, in quanto caccia all’uomo non avrebbe mai prodotto che l’avvilimento del gioco sotto forma di squallida celebrazione dell’utile, glorificato dalle reti di ragionieri inopportuni e opportunisti.

Avrebbe prodotto, si potrebbe replicare, anche il mondiale del 1982, che però Bene liquidava, con la stessa nonchalance con cui le mucche scodinzolando si liberano degli insetti, come "una mosca cieca sostenuta da potenti scariche di adrenalina, una fiammata isterica", una "rivolta del catasto" che "ha giustificato l’increscioso equivoco della sfera drogata in chiappe, sedentarie e nevrotiche".

E se gli italiani hanno vissuto e oggi ricordano in quel trionfo l’evento che li ha traghettati fuori dal buio degli anni 70, Bene invece lo inquadrava entro le coordinate cliniche della psicopatologia: "Un caso, quel voltafaccia spagnolo, da cronaca nera, riletto da Krafft-Ebing, dove i casi hanno una costante: vite irreprensibili che d’un tratto impazzano, giudici togati che dopo quarant’anni esemplari si truccano e vestono da donna, l’altro che attenta all’onore della nonna…".

Tra i delitti commessi dagli azzurri, manichini della sorte colpevoli di oltraggio alla pubblica sfera, il massimo esempio di tracotanza e di eresia, giustamente punito dagli dèi con un mortificante declino, era stato l’aver rispedito a casa i brasiliani che, tra lusso dello spreco e spreco del lusso, incarnavano per mandato divino l’essenza del gioco. Il giocatore più deprecato era Antognoni: "Sguardo fisso da manzo, dipana il più ovvio abecedario calcistico decorandolo di mosse triviali. Stravedono per lui i sedentari, gli sportivi in poltrona".

Agli antipodi rispetto a Gianni Brera

Tra questi, Gianni Brera, teorico dell’anti-calcio e apologeta del non-gioco: colpa sua se "negli stadi ci si annoia molto più che all’università" e se le cronache erano (e sono ancora) infestate da ignominie linguistiche, astrusi neologismi, efferatezze contro la bellezza della lingua. Brera, peraltro indifferente agli strali di Bene, era annoverato tra coloro che, al massimo, avrebbero potuto occuparsi di storia del calcio, anziché prendere a calci la storia, destino riservato invece ai sostenitori del gioco a zona, la sublimazione dell’eleganza, il sistema che esalta il giocatore che si lascia giocare dall’idea trascendente, immateriale, universale, potremmo dire platonica del gioco: l’ideale per un pubblico avido di stupore.

E da ciò risulta evidente come Bene mantenesse, anche quando scriveva di calcio, la prospettiva dell’uomo di teatro, abituato a scomporre le azioni in atti, gesti immediati che per rasentare il sublime devono eccedere l’intenzione e sembrare il meno possibile pensati: "Nella zona si conserva la palla liberandosene al primo tocco. È un disfarsi della palla per dominarla. Contraddizione solo apparente. Anche in poesia il verso si disfa e fa gioco rilanciando ciò di cui manca. La voce del poeta libera il suono perché trami l’incanto".

Una visuale che, nei frequenti deragliamenti in altre discipline, lo portava a valutare secondo criteri puramente estetici imprese sportive universalmente ritenute leggendarie: "Nella corsa di Mennea rappresa dal principio alla fine in una durevole smorfia, si legge sin troppo affanno, sacrificio e spasimo. Tutto il penoso retroscena che la sostiene. E questo non è decente. Chi è grande si veste di leggerezza. Quando è in scena".

La leggerezza di Platini

Una leggerezza che, d’altro canto, non deve mai scadere, passando al tennis, nel "frollo soubrettismo alla McEnroe, mentre Borg è una lezione vivente di teologia". Borg e pochi altri venuti di cielo in terra a miracol mostrare: ad esempio Platini, che per Bene avrebbe meritato il Nobel più di Dario Fo e che giocava dando l’impressione di pensare ad altro, come se il calcio fosse per lui un secondo lavoro: "Questo è il punto, è la grandezza. Non essere mai completamente là dove si è. Bisogna vivere come se fosse una seconda vita. Niente di più squallido che vivere l’unica vita che ci è data".

E nella seconda vita da opinionista sportivo Bene usava ritagliarsene una terza, da folletto situazionista, concedendosi spassose interviste: "Carmelo Bene s’avventura nella spiaggia di fine estate quando già le luci s’attenuano in vista del tramonto. Gli capita a volte in quella solitudine sorvegliata dalle Apuane di autointervistarsi a voce alta. Tanto per fare un po’ di rumore: Se lei fosse ancora vivo e avesse curiosità di svago domenicale, che penserebbe della Ferrari 85?"

Se fosse ancora vivo, non avrebbe pietà dei guitti che, nei media italiani, si avventurano in disamine sportive degne delle più prevedibili chiacchiere da bar. Li fulminerebbe con le parole con cui si presentava al Caffè Rosati in Piazza del Popolo, negli anni della Dolce Vita romana: "Carmelo Bene, male tutti gli altri".