L'ex "titano" rossocrociato (della generazione dei vari Frei, Cabanas, Grichting e Magnin) è l'allenatore dell'Aarau che domani ospita il Chiasso
ll Grasshopper quale rampa di lancio verso il calcio professionistico. Poi il Neuchâtel Xamax (due anni in prestito), il Kriens, lo Zurigo, l’Aarau, prima della lunga militanza all’estero. La Germania, con il Rot-Weiss Erfurt, poi l’Olanda, con Waalwijk e De Graafschap. Una parentesi in Australia, a Sydney, prima del ritorno nella “Eredivisie” olandese, al Willem II, ultima tappa della carriera da calciatore che ha visto Stephan Keller indossare anche la maglia della Nazionale Under 21 dei popolari “Titani” plasmata dal compianto ct rossocrociato Köbi Kuhn (di quel gruppo facevano parte, tra gli altri, Alexander Frei, Ricardo Cabanas e Stephane Grichting), il quale poi assunse la guida tecnica della selezione maggiore nella quale Keller ha staccato tre gettoni. Il tecnico dell’Aarau, avversario odierno del Chiasso, i primi passi da allenatore li ha mossi nella sua terra d'adozione, l’Olanda, nella prestigiosa accademia del PSV e nelle giovanili del NAC Breda. Nel 2020, già ad Aarau, fece un passo indietro e rinunciò all'incarico di assistente con l'intenzione di proporsi in veste di allenatore capo.
Ritiene che fu il momento giusto di affrontare questa nuova avventura? «Nel 2018 - ricorda Keller, classe 1979 - toccò comunque a me dirigere la prima squadra per una decina di partite. Allora non avevo ancora tutti i diplomi del caso. Ho dovuto portare a termine l’iter. A chi svolge questa professione serve un po’ di tempo prima di “trovarsi” e di definirsi bene come tecnico. È una cosa molto diversa dal fare il calciatore. Sono molto contento della scelta fatta, era il momento giusto. Avrei forse potuto farla prima, ma non è nemmeno il caso di diventare impazienti. Se c’è un tipo di pressione di cui l’allenatore risente meno, rispetto al calciatore, è quella legata alla durata della carriera».
Come giudica lo sviluppo della Challenge League in questi anni? È ancora una categoria di formazione? «Alla fine il calcio resta una disciplina piuttosto semplice. Si gioca per vincere, è questo il principio sul quale si regge anche la Challenge. Per il resto, sento spesso belle parole espresse da chi ama filosofeggiare o preferisce non entrare nel merito. Io lavoro da tre anni e mezzo in Challenge League, prima come assistente, ora come allenatore capo. Il livello è migliore di quanto si sia portati a pensare, grazie al fatto che molte squadre giocano a viso aperto, rischiano qualcosa per ottenere la posta piena. In Super League molte compagini giocano per lo più a difesa dello 0-0 iniziale, mentre in Challenge ci sono molte squadre che cercano di segnare un gol in più dell'avversario, ciò che rende il calcio più attrattivo. Per i giovani può essere un buon trampolino di lancio verso categorie superiori, oppure un buon modo per cercare di tornarci. È comunque difficile dire se sia più competitiva oggi rispetto ad anni fa, non mi sento di esprimere un giudizio. Posso però dire che questo campionato è molto interessante perché è ancora molto aperto. Il Chiasso in un modo o nell’altro è ancora agganciato al resto del gruppo. In vetta se la giocano quattro o cinque squadre, in coda la lotta per non retrocedere ne coinvolge quattro, Wil compreso. Questa incertezza fa bene al torneo».
La sua lunga carriera di calciatore, con molte parentesi anche all’estero, ha permesso di maturare esperienze di vario genere che poi possono essere traslate nell’attività di allenatore. «Tutto quello che ho fatto mi è stato di grande aiuto. Ho potuto conoscere e imparare molti stili e molti modi diversi di fare calcio. Sei anni alle prese con il calcio olandese e, più in generale i 15 anni di vita trascorsi in Olanda, mi hanno segnato, nel modo di concepire il calcio. Dieci anni fa, in Australia, sono entrato in contatto con scienze applicate allo sport che adesso lentamente sbarcano anche in Svizzera. In questo ambito gli australiani sono avanti. L’anno in Germania è stato difficile ma molto importante. In un paese così calcisticamente evoluto, avverti il peso del risultato, della pressione, con la quale un giocatore deve imparare a convivere. Sono cose che cerco di trasmettere ai miei giocatori. Non li lascio mai soli, li fiancheggio».
Quali ricordi ha della sua carriera di calciatore? «Volgendo lo sguardo indietro, a molti anni ormai di distanza da quegli anni, mi ritengo molto soddisfatto. Posso vantare quindici stagioni da professionista, ho giocato all’estero in anni in cui andarci non era così “semplice” come invece è il caso oggi. Recentemente ho parlato di questo con Alex (Frei, oggi mister del Wil, ndr). Con i gol che realizzava lui, Frei oggi varrebbe 65 milioni, sul mercato. I giovani di oggi non possono nemmeno rendersi conto di quanto la situazione sia evoluta. Io ho sempre avuto il sogno di giocare all'estero, e posso dire di avercela fatta. Avrei giocato volentieri in un campionato prestigioso quale la serie A, la Bundesliga, o la Premier League, ma forse non ero all’altezza di un posto in una delle leghe più importanti. Va però detto che quelli erano davvero altri tempi. In Inghilterra un calciatore svizzero manco ci poteva andare. Anche in Italia vi era le regole degli stranieri comunitari, con tre caselle per gli extracomunitari che venivano assegnati per lo più a colleghi sudamericani. Oggi posso però serenamente dire di essere soddisfatto. Ho accumulato molte esperienze diverse, ho conosciuto e visto molte cose nuove e molte persone, ho sempre tenuto gli occhi bene aperti. Ovunque io abbia militato, ho sempre avuto un ruolo importante. Sono sempre diventato il capitano delle squadre in cui ho giocato. Sono molto contento della mia carriera di calciatore e del percorso umano che questa ha comportato».
Obiettivi da allenatore? «Sono concentrato solo sull’Aarau. In veste di calciatore, hai un compito chiaro e poche parole da dire. Come allenatore, ho invece l'obiettivo di preparare la squadra a vincere la prossima partita, a scendere in campo per la prossima sfida con un piano e un’idea di gioco precisi. Trovo fondamentale che un allenatore possa ricevere e accettare un progetto, per cercare di portarlo avanti fino al suo compimento. Un tecnico deve poter avere un obiettivo anche a medio termine, per il quale lavorare conseguendo una serie di risultati in più ambiti. Sappiamo bene come funzionano le cose nel calcio, ma per portare avanti un certo tipo di lavoro servono tempo e qualità. Il mio progetto, oggi, si chiama Aarau, società alla quale sono legato fino al 2023. Ha tutta la mia attenzione».
Domani l’Aarau ospita il Chiasso, sfida capitale per ambo le squadre, seppur per motivi diversi. «A otto giornate dalla conclusione del campionato accusiamo un ritardo di 5 lunghezze dallo spareggio di promozione/retrocessione, non è un divario incolmabile, Vogliamo assolutamente vincere, ma non da oggi. È quanto cerchiamo di fare dall’inizio del torneo. Vincere ogni partita è il nostro obiettivo, riflette la nostra filosofia».
La sua squadra ha raggiunto quanto si era prefissato o le manca qualcosa, a livello di risultati o di prestazioni? «Del suo sviluppo posso ritenermi soddisfatto. Abbiamo quattro o cinque elementi che fino a diciotto mesi fa ancora giocavano in Promotion League o in Prima lega, o all’estero, ma in contesti amatoriali, mentre adesso sono veri professionisti, a tutti i livelli. Mi ritengo soddisfatto. Quanto ai risultati, dei 45 punti che abbiamo, non ne abbiamo rubato neppure uno. Talvolta avremmo anche potuto ottenere qualcosa di più, ma è un limite che fa parte della crescita del gruppo. Siamo la squadra che in assoluto crea più occasioni di tutte le rivali di Challenge, ma dobbiamo migliorare in fase di concretizzazione. Questa mancanza di efficacia ci è costata qualche punto».