Il 35enne ex internazionale elvetico, reduce dall'esperienza oltreoceano, è pronto ad aiutare i bianconeri (in emergenza difesa) già da domani a Losanna
Ha girato mezzo mondo Reto Ziegler. In Svizzera dopo essere cresciuto nelle giovanili del Servette ha vestito le maglie di Grasshopper, Sion e Lucerna, mentre fuori dai confini nazionali ha giocato per Tottenham, Amburgo, Wigan, Sampdoria, Fenerbahce, Lokomotiv Mosca, Sampdoria, Sassuolo e, nelle ultime tre stagioni, Fc Dallas, nella Major League statunitense. Per non parlare del girovagare con la casacca della nazionale rossocrociata, indossata in 35 occasioni (comprese tre presenze da titolare ai Mondiali del 2010 in Sudafrica) tra il 2005 e il 2014. Ora, è tornato in Svizzera, ma non ancora per godersi la pensione calcistica.
«Amo il calcio, lo conosco bene, come altrettanto bene conosco me stesso e a 35 anni sono sicuro di poter ancora dare il mio valido contributo – racconta il difensore ginevrino, fresco di contratto fino a giugno firmato con il Lugano, con cui si allena già da martedì –. Quando non sarà più così smetterò, ma non è ancora il caso, come dimostrano anche gli ultimi tre anni negli Usa disputati ad alto livello e nei quali non ho praticamente perso un allenamento o una partita. Certo, ci vuole anche un po’ di fortuna e io l’ho avuta visto che nella mia carriera non ho mai subìto – tocco ferro – gravi infortuni. E in fondo è quello che conta, assieme al fatto che dentro di me brucia ancora il fuoco della passione per questo sport».
Una passione che come detto l’ha riportato in Patria e in particolare sulle rive del Ceresio, dove ha ritrovato una vecchia conoscenza... «Ci sono diverse ragioni che mi hanno spinto ad accettare l’offerta del Lugano e tra queste un peso particolare l’ha avuto Marco Padalino, che mi conosce molto bene (Ziegler e l’attuale direttore sportivo bianconero hanno giocato insieme nella Sampdoria e nella nazionale rossocrociata, ndr). Lo stesso mister Jacobacci mi conosceva già dai tempi del Sion. E poi devo ringraziare anche il presidente Renzetti che mi ha dato questa opportunità. Ho avuto contatti anche con altre società, ma quello che conta è che adesso sono qui a Lugano e sono felice. Anche a livello di vita sono contento di essere tornato in Svizzera, negli States sono diventato papà di una bambina che avrà due anni fra poco e aspettiamo un’altra bimba per maggio, per cui anche per la famiglia è un passo importante. In ogni caso in primo piano come detto c’è il calcio, sono qui per dare una mano a questa squadra che ormai da anni sta dimostrando di essere all’altezza delle migliori in Svizzera e che ha mostrato il suo valore anche in Europa. E ha il potenziale per fare ancora tanto, ad esempio alzare la Coppa Svizzera, uno dei miei obiettivi (negli ottavi di finale il Lugano affronterà il Monthey, compagine di Seconda Lega interregionale, ndr)».
Alla base dei successi bianconeri, un fattore che lo stesso Ziegler ha subito notato e che tiene a sottolineare… «Ho trovato un gruppo unito e convinto della maniera in cui vuole giocare, ma soprattutto ci tengo a sottolineare tutto ciò che c’è attorno alla squadra, perché il Lugano è una società che posso paragonare alla Sampdoria, ossia una grande famiglia. Si sta molto insieme, si mangia e si fa altro tutti assieme, sono cose che non succedono in tutte le società ma che permettono di creare lo spirito giusto da portare in campo».
E sul terreno da gioco il 35enne “rischia” di ritrovarsi già domani a Losanna, vista l’emergenza in difesa in casa ticinese (mancherà oltre mezza difesa titolare)... «Sono pronto. Da quando la stagione negli Stati Uniti è finita (dicembre 2020, ndr) mi sono tenuto allenato. Chiaramente questo non può compensare la mancanza di competizione, ma ho fatto il massimo che potevo e mi sento bene. Ho inoltre già avuto questa settimana per conoscere i compagni e iniziare ad ambientarmi, per cui se il mister riterrà di mandarmi in campo, di certo non mi tirerò indietro. Per quel che riguarda la posizione, sono ormai sei anni che gioco centrale di difesa e devo dire che preferisco concentrarmi su un ruolo e ricoprirlo al meglio piuttosto che fare da “jolly”».
Quella vissuta oltreoceano tra il gennaio 2018 e lo scorso dicembre per Ziegler è stata un’avventura che ha decisamente oltrepassato i confini dello sport… «Ho sempre amato la cultura americana ed era un po’ un sogno nel cassetto vivere un’esperienza oltreoceano, per cui quando ho chiuso la mia avventura a Sion (giugno 2017, ndr) e si è presentata l’opportunità – oltretutto con un contratto di tre anni – di partire per il Nord America, l’ho colta al volo. E sono contento di averlo fatto, è stata un’esperienza anche di vita molto intensa, in particolare negli ultimi tempi di cose ne sono successe parecchie ed è stato un periodo particolare e difficile non solo per il Covid. Se penso ad esempio alla questione “Black Lives Matter”, noi siamo stati forse l’unica squadra che si è sempre inginocchiata durante l’inno americano che precede ogni partita, per protestare contro le discriminazioni razziali. È stata una scelta di gruppo, è importante essere vicini a tutte le comunità. Tanti ci hanno fischiato per questo ma io sono orgoglioso di averlo fatto».
Il difensore rossocrociato ha chiuso la sua parentesi con Dallas (di cui è stato capitano dal marzo 2019) con all’attivo 12 gol e 2 assist in un campionato che non gode forse ancora della giusta considerazione nel Vecchio Continente… «Gli Stati Uniti non sono ancora una destinazione allettante per i giovani giocatori europei, ma questo non vuol dire che il livello sia basso, anzi. Il calcio statunitense è sottovalutato in Europa ed è anche difficile da seguire visto il fuso orario, ma è cresciuto molto negli ultimi anni e sono pronto a scommettere che tra qualche anno avrà guadagnato ancora più rispetto e attrattività. Io poi ho avuto la fortuna di giocare in una città nella quale il calcio è molto amato. Certo, non ai livelli di altri sport quali ad esempio il basket e il football, ma non penso ci sia un solo posto negli Usa dove è così. Però a Dallas la passione per il “soccer” è tanta, vengono investiti molti soldi e prima della pandemia, il nostro stadio era quasi sempre pieno (il Toyota Stadium può contenere fino a 20’500 persone, ndr). A Dallas c’è una forte influenza latina, tanto che parlavo quasi più spagnolo che inglese in quanto gran parte dello staff e dei miei compagni era sudamericano, ma è anche grazie a loro che il calcio in America sta crescendo».