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Nba, le semifinali che non ti aspetti

I playoff della lega più prestigiosa al mondo hanno visto eliminati i Nuggets campioni in carica e i Knicks che parevano destinati a proseguire

In sintesi:
  • Tutti si attendevano a Ovest una sfida fra lo sloveno Doncic (Dallas) e il serbo Jokic (Denver), ma Denver è stata eliminata a sorpresa da Minnesota
  • Grande favorita per il successo finale rimane Boston, ma i playoff quest'anno hanno già regalato sorpresa, e dunque non si escludono risultati inattesi
22 maggio 2024
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Ci sono volute due settimane di battaglie, rimonte, colpi di scena. Prodezze clamorose e fiaschi sconcertanti. Ma dopo 25 partite — alcune tiratissime, altre a senso unico — i playoff Nba hanno emesso il proprio verdetto di metà cammino. A giocarsi l’accesso alla finale saranno Boston e Indiana nella Eastern Conference, e Minnesota e Dallas nella Western. Un tabellone bizzarro, dove la favorita assoluta — i Boston Celtics dominatori della stagione — sono affiancate da tre squadre che pochi avrebbero pronosticato. Ma che sono arrivate sin qui con pieno merito, mostrando peculiarità che sono risultate indigeste ai propri avversari. Salutano dunque i Nuggets campioni in carica, e i New York Knicks, cioè la grande operazione nostalgia che aveva riportato al Madison Square Garden attenzione e celebrità, salvo poi dissolversi sul più bello e oltretutto davanti al proprio pubblico.

Sfida inedita

Sembrava tutto apparecchiato per il grande derby balcanico: Luka Doncic contro Nikola Jokic, Slovenia contro Serbia, genio del perimetro contro genio dell’area. Ma nessuno si era davvero reso conto di quello che avevano in serbo i Minnesota Timberwolves, che hanno ribaltato una partita che sembrava ormai persa – sotto 58-38 a inizio terzo periodo, in trasferta – ed espugnato l’altopiano di Denver. Più forti pure dell’altitudine che, a oltre 1’500 metri sul livello del mare, spesso fa girare la testa agli avversari. Quella di Minnesota non è stata solo la vittoria del carattere. E’ stato pure il trionfo di un assetto tattico – quello con due lunghi impiegati simultaneamente, di cui uno inoffensivo oltre i tre metri dal canestro – che sembrava totalmente anacronistico per l’Nba moderna.

Eppure, hanno avuto ragione loro. Lo spigoloso francese Rudy Gobert, acquisito in una mossa di mercato criticatissima, ha innescato la rimonta nel secondo tempo di gara 7, erigendo una saracinesca sotto al proprio canestro, e andando poi a fare man bassa di rimbalzi d’attacco nell’area avversaria. Il collega di reparto Karl Anthony Towns, gigante buono con lingua lunga e mani prelibate, ha tenuto in piedi la squadra nei momenti più difficili, sfoderando tutte le armi offensive che avevano portato Minnesota a prenderlo come prima scelta assoluta nel draft del 2015. Scelta anche quella criticata. Ma che oggi, con buona pace di chi lo ha preso in giro per l’indole mansueta, acquista tutto un altro senso. Al resto ci ha pensato la difesa di squadra più efficace di questi playoff, oltre che i voli di Anthony Edwards. Un personaggio fumettistico, con due molle al posto delle gambe, e una capacità di rilasciare il tiro ad altezze siderali. A cui le dita protese degli avversari non possono arrivare. E così, l’ultimo duello a Ovest sarà Dallas contro Minnesota. Una serie bizzarra, imprevista, virtualmente senza precedenti., fatta eccezione per il secco 3-0 con cui i Mavs si sbarazzarono dei T-Wolves nel lontano 2002. C’erano Kevin Garnett, Dirk Nowitzki, Steve Nash. Era davvero preistoria cestistica.

Anche per Luka Doncic e i suoi Mavs la finale di conference rappresenta una frontiera inesplorata. Ci era già arrivato, nel 2022. Ma si trovò contro l’ultima versione corazzata dei Golden State Warriors, che andarono infatti a vincere il titolo. Due anni dopo, Doncic è un giocatore più esperto. Dopo la luna di miele dei primi anni in Nba, ha conosciuto l’agro sapore delle critiche – giustificate – dopo aver fallito la qualificazione ai playoff dello scorso anno. E in questi playoff, tartassato dai problemi al ginocchio, ha dovuto imparare a vincere con uno stile diverso. Più umano, meno divino.

Ha stretto i denti, preso e dato botte, imparato ad accettare le serate storte. E, pur limitato nei movimenti, ha piazzato zampate decisive in una serie tremendamente tirata. In cui quasi tutte le partite sono arrivate in equilibrio all’inizio del quarto periodo. Nell’avventura che lo aspetta, avrà il supporto di Kyrie Irving. Uno dei talenti più bizzosi, eppure cristallini, che abbiamo ammirato nell’ultimo decennio. Criticato per le sue posizioni terrapiattiste, e soprattutto per il rifiuto di vaccinarsi contro il Covid che lo ha lasciato a bordocampo per buona parte di una stagione, Irving ha portato ai Mavs una componente di creatività che spesso è risultata decisiva. Non ha giocato particolarmente bene, né è stato continuo. Ma le sue incursioni hanno spesso sparigliato le carte nei finali di partita, risolvendo situazioni spinose.

Al resto ci ha pensato l’arrembante cast di supporto dei Mavs, che ha portato energia, difesa, rimbalzi. E quella fisicità che ha fatto la differenza contro una squadra tanto ricca di talento quanto leggera come gli Oklahoma City Thunder. E proprio un gregario, PJ Washington, è stato decisivo, guadagnandosi i tiri liberi che, a due secondi dalla fine, hanno regalato ai Mavericks l’ultimo vantaggio della partita. Quello più importante, che è valsa la qualificazione nel delirio del pubblico di casa.

Armonia offensiva

Storicamente, la Eastern Conference tende a essere il palcoscenico di scontri ruvidi, fisici. Dove, al netto delle prodezze delle singole star, le difese prendono il sopravvento. Proprio per questo, è particolarmente affascinante la sfida tra Boston e Indiana. Difficile immaginare due attacchi più armonici, dinamici ed equilibrati di quelli di Celtics e Pacers. In barba agli stereotipi che riducono la filosofia offensiva delle squadre Nba a un susseguirsi di iniziative individuali. Sia chiaro, il talento non manca. Con Jayson Tatum e Jaylen Brown, Boston vanta la coppia di esterni più versatile e fisica dell’intera lega: due realizzatori completi e virtualmente intercambiabili che sanno tirare da tre, penetrare, attaccare dal palleggio, giocare spalle a canestro.

Attorno a due bocche da fuoco del genere, la squadra è stata plasmata seguendo l’approccio più logico: circondando le due stelle di un esercito di tiratori, piccoli e lunghi, pronti a trarre vantaggio dagli spazi sul perimetro. Ne è risultato l’attacco con il più alto numero di tiri da tre punti tentati (42,5) e segnati (16,2), e il secondo per percentuale (39%). Dopo aver dominato la regular season, i Celtics hanno avuto gioco relativamente facile nei primi due turni, sbarazzandosi di Heat e Cavaliers. E soprattutto hanno dato l’impressione di essersela presa abbastanza comoda, permettendo a Tatum e Brown di riposare, e distribuendo spazio, punti, e tiri a tutti i giocatori della rotazione. Che diventerà ancora più profonda con l’eventuale rientro del lettone Kristaps Porzingis: colpo di mercato della scorsa estate che però, come da consuetudine, si è trovato a battagliare con gli infortuni. Ma per la redenzione non è mai troppo tardi.

Boston dovrà però vedersela con un avversario in stato di grazia: gli Indiana Pacers reduci dalla dominante vittoria in gara 7 contro New York. Una partita in cui hanno tirato col 67% totale, battendo il record assoluto della storia dei playoff. In trasferta, e in un ambiente carico a mille. Allenata da Rick Carlisle – personaggio dalla smorfia facile ma dall’intuito sopraffino –Indiana incarna due qualità che la rendono un avversario pericolosissimo. Una è l’armonia offensiva. Trascinati da Tyrese Haliburton, guardia filiforme capace di sganciare un tiro in un fazzoletto di spazio, i Pacers sono una squadra in cui la palla circola velocemente, e tutti sono in grado di prendere l’iniziativa. Non solo giocatori di esperienza comprovata come il camerunese Pascal Siakam, ma pure improbabili elementi di terza linea come l’assatanato folletto TJ McConnell, che ha fatto a pezzi i Knicks con le sue penetrazioni.

La seconda è la solidità psicologica, che ha permesso ai Pacers di rimanere competitivi senza farsi influenzare dagli eventi esterni. Prima sono finiti sotto 2-0, al termine di due partite che avrebbero potuto tranquillamente vincere; e poi hanno strappato con le unghie una vittoria tanto brutta quanto vitale in gara 3. Infine, dopo aver incassato una scoppola epocale in gara 5, hanno reagito sommergendo i Knicks nelle ultime due partite. Compito agevolato dagli infortuni degli avversari, certo, ma comunque portato a termine con una sicurezza e una fiducia nei propri mezzi che non faranno dormire sonni tranquilli ai Celtics. Favoriti, ma consapevoli di avere una bruttissima gatta da pelare.

Equilibrio

Sono stati dei playoff molto bilanciati quelli ammirati sin qui. Non tanto a livello dei singoli incontri – molte partite son finite con scarti in doppia cifra, e i finali punto a punto sono stati relativamente rari – quanto per l’equilibrio delle forze in campo. Due serie sono finite alla “bella”, mentre una si è conclusa alla sesta partita per questione di secondi. Solo la sfida tra Celtics e Cavs è stata a senso unico. E così, una volta di più abbiamo potuto goderci la natura unica di un genere di eliminatoria che sacrifica la follia della partita secca, e dunque un po’ di imprevedibilità. Ma che permette di osservare aspetti del gioco egualmente interessanti. Come la possibilità per i protagonisti di studiarsi, adattarsi, e imparare dai propri errori in corso d’opera. E l’abilità, elevata ad arte da Indiana e Minnesota, di sapersi mettere rapidamente alle spalle una serata infelice, presentandosi la volta successiva come se non fosse successo niente. Anche questo vuol dire essere campioni. E anche questo è il fascino dei playoff.