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Il trionfo quasi scontato dei Celtics

La stagione Nba si è conclusa con la netta vittoria di Boston – più squadra – su Dallas, che si affidava quasi soltanto al talento di Luka Doncic

In sintesi:
  • Troppo forte in ogni reparto la franchigia del Massachusetts: Dallas non ha saputo opporsi in modo adeguato
  • Il successo del Celtics di coach Joe Mazzulla è figlio di una oculata programmazione nel corso degli anni
  • I texani, nettamente più deboli tecnicamente, hanno riversato ogni speranza sulle prestazioni della loro stella Doncic, che però nelle finali ha potuto fare poco
20 giugno 2024
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Vincono i Boston Celtics. Anzi, stravincono. Sbarazzandosi senza problemi dei Dallas Mavericks, e conquistando il 18° titolo della propria storia. Uno in più dei Lakers, eterni rivali, fermi a 17. Nessuno, nella storia del gioco, è arrivato a tanto. La vittoria in finale, suggellata da una dominante vittoria in gara 5, corona una stagione in cui Boston è sembrata essere alla guida di uno schiacciasassi. Una squadra troppo completa, esperta, preparata, rodata, per essere messa in seria difficoltà. A maggior ragione dopo che alcune delle principali stelle avversarie – Giannis Antetokounmpo e Joel Embiid su tutti – sono arrivati al momento clou della stagione a mezzo servizio, o addirittura fuori causa. Ridurre il trionfo dei Celtics a un allineamento di pianeti favorevole, però, sarebbe un errore grossolano.

La vittoria di Boston è figlia di un processo lungo, fatto di amare sconfitte e dure lezioni. Che hanno permesso ai Celtics di crescere e migliorare, e hanno consacrato Jaylen Brown e Jayson Tatum come una delle coppie di giocatori più completi, armoniosi, e difficili da limitare della storia recente del gioco. Raccogliere dividendi era solo questione di tempo.

Dominio

Boston ha divorato qualsiasi cosa si sia messa sul suo cammino. E lo ha fatto con le armi dei predatori più esperti: non foga e ingordigia, ma cinica meticolosità. Quella di chi ottimizza gli sforzi, e piazza le zampate nei momenti cruciali. Mai c’è stata la sensazione che i Celtics potessero perdere il controllo della situazione. Anche dopo le serate nere in cui, inevitabilmente, sono incappati lungo il cammino. È proprio questo dominio in sordina, questo radere tutto al suolo senza nemmeno aver bisogno di giocare al meglio, che ha reso l’idea della loro superiorità, tecnica e mentale. Al titolo, Boston ci è arrivata con le stesse armi che le avevano garantito una stagione regolare di dominio assoluto.

In attacco, è stato il tiro da tre: bistrattata icona della teoria dei giochi applicata alla pallacanestro moderna, e fondamentale che molti benpensanti derubricano a tiro al bersaglio. Come se, ancora prima di segnarli, i tiri non si dovesse costruirli. E i Celtics lo hanno fatto alla grande. Aprendo gli spazi, muovendo la difesa con le penetrazioni, e contando sulla voglia di tutti i giocatori del quintetto di passarsi la palla. Una filosofia da meglio un tiro ottimo per il compagno che uno buono per me che li ha portati a essere i leader sia nei tiri da fuori tentati che nelle percentuali di realizzazione. Lo stesso equilibrio è stato anche il segreto della loro difesa. In cui il prezzo di alcune marcature squilibrate – inevitabile quando si gioca con quattro esterni – è stato ampiamente ammortizzato dalla flessibilità del sistema. Quella che permette di cambiare sistematicamente sui blocchi e distribuire le responsabilità, senza scommettere tutto su un duello particolare. Se ne sono accorti, loro malgrado, anche Luka Doncic e Kyrie Irving. Severamente limitati lungo tutto lo svolgimento della finale.

Stelle fatte in casa

In Nba, il mercato delle stelle viene spesso visto come il crocevia del destino. Offerte da capogiro, corteggiamenti spasmodici, contropartite sanguinose: parte del copione per accaparrarsi i fenomeni a disposizione e imboccare la scorciatoia per vincere subito. In un contesto del genere, i Celtics hanno dimostrato che si può vincere anche con un approccio diverso. Sbarazzandosi dei giocatori, invece di comprarli. Come fece Danny Ainge, ai tempi general manager, quando lasciò andare tutti i pezzi grossi – Paul Pierce, Ray Allen, Kevin Garnett – che avevano portato alla vittoria del titolo, nel 2008. Ceduti, nel giro di pochi anni, in cambio di un ordine di scelta vantaggioso al draft: la selezione, tanto rischiosa quanto gratuita, dei migliori giocatori del campionato universitario.

Nel gergo del mercato, le scelte del draft le chiamano “asset”, proprio come nei mercati finanziari. Beni senza liquidità immediata; ma che, con un po’ di fortuna, possono garantire rendite future esponenziali. Proprio così sono arrivati Jayson Tatum e Jaylen Brown, le colonne portanti del trionfo. Legati da una storia comune – entrambi presi con la scelta numero 3, in due anni consecutivi – oltre che da una perfetta intesa sul campo. In una lega a forte spinta individualistica, in cui dietro alla retorica della vittoria comandano gli interessi personali e la sete di gloria, Tatum e Brown hanno dimostrato che due giocatori che giocano nello stesso ruolo, hanno arsenali offensivi devastanti e adorano avere la palla in mano non sono necessariamente doppioni da scartare. Anzi, possono convivere, e pure divertirsi. Con buona pace di chi, ossessionato dalla polemica, ha sempre insinuato che, senza una chiara divisione dei ruoli, i Celtics non avrebbero mai potuto vincere.

Parole al vento, come sottolineato dallo stesso Tatum durante i festeggiamenti. Il titolo di Mvp se lo è preso Brown, grazie soprattutto alle grandi prestazioni difensive. Ma dopo sette anni di carriera anche per Tatum è arrivato il momento della consacrazione. Al pari di Al Horford, volpone delle battaglie d’area, che ha dovuto giocare 186 partite di playoff prima di poter celebrare il titolo, e Jrue Holiday, diabolico difensore, che ha portato un contributo decisivo nelle partite di playoff. Accanto a loro, tutti hanno dato il loro contributo, proporzionalmente ai propri talenti. Salendo di tono mentre gli avversari, falcidiati dagli infortuni, perdevano i propri pezzi.

Panchina e scrivania

A essere prodotti in casa, per Boston, non sono solo i giocatori. Ma pure gli elementi chiave dello staff. Uno è Brad Stevens, il general manager, colui che nel lontano 2013 Danny Ainge strappò al mondo del basket universitario, dove si era imposto come bambino prodigio della panchina, e portò tra i professionisti. Un mondo che mai in precedenza era arrivato nemmeno a sfiorare. Giunsero alcune buone stagioni, prima del colpo di scena: dalla panchina passò alla scrivania, investito della massima carica dirigenziale. Un ruolo in cui si è calato alla perfezione, orchestrando le mosse che hanno portato a costruire l’ossatura di questi Celtics. L’altro è Joe Mazzulla, l’allenatore.

Tipico eroe di culto delle notti di college basketball, di quelli che chiaramente non hanno futuro al piano superiore, e sanno di dover dare tutto allo scoccare dei vent’anni prima di finire nell’oblio. Con il suo saldo palleggio mancino e una goffa andatura al rallentatore condusse West Virginia alla conquista della Final Four del 2010, eliminando la Kentucky di John Wall e DeMarcus Cousins. Una di quelle partite che capitano solo una volta in carriera. Da lì in poi, si sarebbe dedicato al ruolo di allenatore. Partendo, come tutti, dal sottobosco degli assistenti. A spedirlo sulla ribalta ci ha pensato la relazione che l’allora allenatore Ime Udoka ebbe con una dipendente dei Celtics, che gli costò il posto di lavoro in uno dei licenziamenti più discussi della storia recente del gioco.

Era l’autunno 2022. Con la stagione ormai alle porte, Boston decise di puntare su qualcuno di interno, rimandando una ricerca più approfondita alla stagione successiva. Largo a Mazzulla dunque. E quella che sembrava essere una mera soluzione tappabuchi si trasformò nella ciliegina sulla torta. Trovatosi in mano un giocattolo già ben oliato, Mazzulla ci ha messo del suo. Gestendo benissimo l’alternanza di potere tra Tatum e Brown. E contribuendo a creare una delle macchine offensive più efficienti dell’Nba moderna.

Futuro sloveno

Luka Doncic l’esordio alle finali se lo immaginava probabilmente diverso. Dalle cinque partite della serie, lo sloveno è uscito sonoramente sconfitto. Impreciso in attacco, dove è stato isolato con grande efficacia dalla retroguardia dei Celtics. E vulnerabile in difesa, dove la sua mobilità modesta, esacerbata dalle condizioni fisiche imperfette, è stata brutalmente messa a nudo. Dopo soli cinque anni di carriera Nba, il bilancio rimane altamente positivo. Soprattutto perché Doncic, in questi playoff, ha fatto vedere di saper sopravvivere anche in contesti di pallacanestro brutta e sporca. Mostrando tenacia nel tenere botta nonostante il ginocchio ballerino, e sciorinando la solita freddezza nei momenti chiave. Se ne sono accorti i malcapitati Minnesota Timberwolves, infilzati a più riprese nelle partite decisive per l’accesso in finale.

La lunga cavalcata nei playoff, però, ha anche permesso di vedere con inedita chiarezza i suoi limiti. La fragilità difensiva, mascherata dall’intensità diluita della regular season, è impietosamente emersa nel momento più importante della serie. Quegli ultimi minuti di gara 3 in cui, con Dallas in rimonta, ha commesso quinto e sesto fallo in rapida successione, abbandonando i suoi nel momento più importante. Egualmente evidente è stata la sua continua propensione a protestare con gli arbitri, dando vita a un rituale che, in certe partite, è sembrato una sanguinosa distrazione. È evidente che non gode ancora della protezione assoluta garantita a giocatori come Joel Embiid o LeBron James, prerogativa ristretta a una cerchia di pochissimi giocatori. Ma al tempo stesso, i suoi momenti migliori sono arrivati quando ha smesso di pensare agli arbitri, e ha lasciato che fosse il suo ammorbante talento a guidarne l’operato. Se è bastato per arrivare in finale, anche su un ginocchio malconcio, chissà dove potrà arrivare in futuro. Un interrogativo che ci fa perdere la testa, mentre già è partito il conto alla rovescia per la prossima stagione.

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