laR+ La recensione

‘Argentina 78’, la festa di tutti, ma specialmente di alcuni

Intervista agli autori di una serie tv Disney uscita in Sudamerica ma non ancora in Europa e dedicata al Mondiale di calcio più politicizzato della storia

In sintesi:
  • Spesso raccontata soltanto partendo da un'unica prospettiva, la Coppa del mondo di calcio del 1978 ha rivestito grande importanza non solo per la giunta militare al potere a quell'epoca nel Paese, ma – paradossalmente – anche per la sua disfatta
  • Nei tre anni e mezzo della lavorazione, davanti agli autori si sono seduti calciatori come Passarella e Kempes, alcuni reduci del campo di detenzione clandestino dell’Esma, Madres de Plaza de Mayo, giornalisti che hanno vissuto il Mondiale da inviati. E anche Mario Firmenich, una delle figure più significative del movimento guerrigliero dei Montoneros.
20 dicembre 2024
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Le primissime immagini sono quelle di due bambini che trovano per strada un passaporto straniero: in maniera controintuitiva rispetto all’immaginario del pibe de barrio, decidono di portarlo in commissariato. «Hermoso ejemplo, ¿verdad?» suggerisce la voce fuori campo dello spot. È il 1978, e in un’Argentina alle prese con quello che i militari chiamano Processo di Riorganizzazione Nazionale, e che è a tutti gli effetti una dittatura, sta per arrivare il Mondiale: la missione di ognuno è quella di fare bella figura. Poco dopo parte l’inno ufficiale di quel Mundial: «veinticinco millones de argentinos…», dice la marcetta, sottolineando come quell’evento sia la festa di tutti. Di qualcuno, chiaramente, di più.

‘Argentina ’78’ è il titolo – accompagnato da nessun sottotitolo, spurio di connotazioni – di una nuova serie tv uscita da poco più di una settimana su Disney+ Latino America (e la speranza è che prossimamente possa arrivare sulla piattaforma anche in Europa): quattro episodi che non durano mai più di 45’, dal ritmo serrato, pieni di colore e con un approccio preciso, diretto, mai fazioso. «Ci sembrava un fenomeno con una sua narrativa molto sedimentata e ormai appiattita», mi dicono Lucas Bucci e Tomás Sposato, gli autori e registi del documentario, in una lunga chiacchierata da un lato all’altro dell’Oceano. «Per tutti quello è il Mondiale della dittatura, un Mondiale combinato, e fine della storia. Certo, potrebbe essere così: ma a noi interessava raccontare il contrasto di un Paese che soffriva sì una dittatura, ma che viveva anche quell’evento con gioia e intensità».

Una matassa da dipanare

Si sono resi conto, insomma, che la narrativa precostituita soffocava un po’ gli stimoli sotterranei. Che non rendesse conto della meravigliosa complessità annidata nelle contraddizioni. Theodor Adorno scriveva che “un lavoro artistico di successo non è quello che risolve le contraddizioni armonicamente, ma quello che esprime l’idea di armonia negativamente, incorporando le contraddizioni, nella sua struttura interna”. Come sottolineano le voci di Matías Bauso (autore di un’opera monumentale, ‘78. Historia oral del Mundial’) ed Ezequiel Fernández Moores (uno dei più lucidi e saggi giornalisti sportivi argentini), che sono un po’ gli aedi della serie, uno dei punti di partenza è sempre eviscerare tutte le contraddizioni: capire quanto distorta fosse la visione dall’interno, dipanare quella matassa.

La maniera migliore per farlo, secondo Sposato e Bucci, era quella di allargare il campo: affondare nelle immagini non solo dei militari, o del campo, ma restituire una quotidianità spesso dimenticata. La serie è anche il risultato di una ricerca – e di scelte – di materiale d’archivio stupefacente, spesso sorprendente: ritrae la gente nel suo vivere una vita normale, ignara. «Tutto quello che si vede normalmente dell’Argentina negli anni Settanta è sempre qualcosa – un po’ per il materiale, un po’ per l’oscurità della società in quegli anni – di buio, in bianco e nero, cupo. Il Mondiale ha anche aiutato un cambio di registro: sono arrivati i giornalisti da tutto il mondo, altre telecamere, altri occhi. Gli stessi argentini potevano ora vedere non una nuova Argentina, ma il loro Paese in un modo nuovo. Volevamo fare un viaggio nel tempo, con immagini a colori, vive: in questo ci sono venuti in aiuto anche molti documentari dell’epoca polacchi, olandesi, della Fifa».

Uno strumento di legittimazione

Il grande pregio di questa serie è quello di non dare nulla per scontato: non presenta l’Argentina campione, e poi tutto ciò che c’è alle spalle di quel trionfo in qualche modo sporco. Racconta, invece, con una dovizia di particolari e una molteplicità di punti di vista, il Mondiale nel suo compiersi, nel suo accumulare stratificazioni di significato, nel suo essere difficilmente interpretabile in maniera netta. Ovviamente spiega il ruolo centrale e prioritario che organizzare quel Mondiale avesse per la Junta: il più immediato, ed eminentemente argentino, strumento di legittimazione.

Un’organizzazione per nulla facile, costellata di lotte di potere interne alla Junta stessa, critiche, boicottaggi, sperpero di capitali, corruzione, omicidi irrisolti di personalità che hanno provato ad alzare la voce sulle storture in atto (Omar Actis, primo presidente dell’Ente Autarchico per il Mondiale, assassinato alla vigilia della conferenza stampa con cui avrebbe comunicato il taglio drastico alle spese; Juan Aleman, che è stato fatto saltare in aria dopo aver dichiarato che organizzare quel Mondiale fosse stato un grande errore).

I guerriglieri Montoneros

«Le voci che cercavamo», dicono Sposato e Bucci, «dovevano essere non solo in grado di raccontare la storia, ma in qualche modo volevamo protagonisti che quella storia l’avessero vissuta». Nei tre anni e mezzo della lavorazione, davanti agli autori si sono seduti calciatori come Passarella e Kempes, reduci dal campo di detenzione clandestino dell’Esma, Madres de Plaza de Mayo, giornalisti che hanno vissuto il Mondiale da inviati. E anche Mario Firmenich, una delle figure più significative del movimento guerrigliero dei Montoneros.

«Intuitivamente uno pensa che se i Montoneros fossero stati impegnati in una lotta armata contro la dittatura, allora avrebbero dovuto essere contrari a un Mondiale organizzato da una dittatura per lavare la sua immagine. E invece non è per niente andata così». Nel documentario Firmenich chiarisce la posizione dei Montoneros: in quel Mondiale hanno fatto il tifo non solo affinché si giocasse – moltiplicando le possibilità di porre l’Argentina sotto gli occhi del mondo – ma anche affinché si vincesse. Per intonare quel ‘dale campeón’ sull’aria della Marcia Peronista. Nonostante non ci fossero che una manciata di chilometri, se non metri, tra i campi in cui si giocava e i luoghi di tortura.

«Quando tutto sembrava portare da una parte, e poi subentrava l’elemento controintuitivo: ecco, quello per noi è stato un punto di svolta», dicono gli autori. E l’impressione è che quei punti di svolta diano alla serie qualcosa che nella narrazione del Mondiale ’78 è spesso mancata: una prospettiva, un’angolatura differente. Nell’ottica di gambetear la faziosità, di schivare la deriva elegiaca, Sposato e Bucci hanno anche provato a raccogliere il punto di vista opposto, finora l’unico davvero poco esplorato: quello dei membri della Junta. «Abbiamo cercato di metterci in contatto, tramite gli avvocati visto che sono tutti in carcere, con persone legate al regime, ai militari, al direttivo dell’Esma. Ci abbiamo provato ma non ci siamo riusciti, ed è un peccato perché questa campana avrebbe conferito una complessità ancora maggiore».

El Flaco, lucido ma emozionato

Un aspetto che non viene invece sottovalutato è quello del campo: anzi, ‘Argentina ’78’ è una serie in cui la cancha si sente, si percepisce, e alla vittoria viene data, finalmente, la giusta dimensione. «Una delle sorprese più grandi è stata quella di essere riusciti a coinvolgere César Luis Menotti: inizialmente non aveva voglia di partecipare, è un tema difficile da affrontare per i membri di quella Selección». La presenza del Flaco, in una delle sue ultimissime apparizioni prima della scomparsa, ci restituisce una visione lucidissima, particolarmente emozionata, che fa vibrare le corde del cuore, e dei ricordi.

Il Mundial ’78 è stato soprattutto la masterclass fútbol-filosofica di Menotti, che ha saputo riportare il calcio ai suoi legittimi proprietari, la gente, dimostrando quanto la palla sia uno strumento culturale imbattibile, “così puro”, dice a un certo punto “che niente e nessuno possono macchiarla”; che ha inventato, in qualche modo, il calcio moderno albiceleste, e che in quel Mondiale ha sublimato un gruppo di buoni giocatori, motivandoli lungo tutto il suo ciclo, in campioni. Ma è stato anche il Mondiale di Kempes, diez ante litteram, la prima vera stella epitomica del fulbo, e il focus su questo aspetto – spesso poco riconosciuto – ha il merito di restituire al Matador il posto che si merita.

Doloroso escludere Diego

Forse l’unico vero elefante nella stanza, che per tutta la serie si avverte, è quello dell’assenza di qualsiasi rimando a Maradona. «Escluderlo è stato dolorosissimo», confessa Bucci. «Forse tanto doloroso quanto per Menotti è stato escluderlo da quel Mondiale», aggiunge divertito Sposato. Su un aspetto concordano: «Ci siamo resi conto che era una storia troppo trascendente, che non era funzionale al tipo di narrativa che avevamo in mente». Non mancano, invece, riferimenti – e testimonianze dei protagonisti, una più contraddittoria dell’altra – a quella che è passata alla storia come mermelada peruana, cioè l’ultima sfida prima della finale, tra Argentina e Perù, sulla quale aleggiano da sempre sospetti di combine. La partita – come dice Bauso – più lunga della storia del calcio, iniziata al fischio finale di Brasile-Polonia (la partita di cui l’Argentina prima di scendere in campo conosceva il risultato, e di conseguenza le reti necessarie per accedere alla finale) e mai terminata. I mi hanno detto, i qualcuno sostiene, sono il fil rouge che serpeggia per tutta la serie: esattamente la matassa che gli autori cercano di sbandolare.

Le Madri di Plaza de mayo

Ma sono anche stati, mentre il Mundial si svolgeva, le voci che serpeggiavano tra gli inviati, che sentivano parlare di desaparecidos, di Madres locas, “pazze” perché reclamavano in maniera infondata presunti figli scomparsi. Come Enriqueta Rodríguez Maroni, una delle Madri di Plaza de Mayo che compare nel documentario dell’olandese Vandeputte, girato in presa diretta, e che oggi ha centodue anni. «Eppure, durante l’intervista, ricordava ogni singola parola detta all’olandese. Le abbiamo sovrapposte, ed è stato uno di quei momenti per i quali ti fermi e dici solo: wow». Ancora oggi, il Mondiale del ’78 solleva più dubbi che risposte. Chi lo ha vinto? La Selección? La gente? Di certo lo ha perso la dittatura, perché è indubbio che abbia messo in moto un meccanismo che, in qualche maniera, ha portato alla dissoluzione della Junta: paradossalmente, il trionfo è stato l’inizio della disfatta.

La coerenza delle contraddizioni

Cosa sarebbe successo, se la vittoria fosse arrivata in democrazia? È lecito, oggi, festeggiare il 25 Giugno, la data della prima stella, come festa nazionale? «In un mondo – e in un’Argentina in particolare – totalmente radicalizzato, per ogni cosa sentiamo di dover prendere una posizione, stare a un lato o l’altro del charco. E se sei al centro, sei uno che no se la juega, come diciamo qua. Questo documentario è stato concepito e realizzato affinché le nuove generazioni potessero approcciarsi al racconto del Mondiale senza preconcetti. Lo abbiamo pensato per un pubblico giovane, che consuma molti contenuti di piattaforma, e non è un caso che abbiamo scelto come editor Santiago Perfetto, che all’inizio del lavoro aveva solo 23 anni e veniva da un’esperienza di regista di videoclip. Ma lo abbiamo pensato anche per chi lo ha vissuto, e magari si è sentito in colpa mentre festeggiava un gol mentre succedeva quel che succedeva».

Il merito più grande del documentario, semplice ma non banale, sembra essere quello di mettere in luce l’importanza – e l’irriducibilità semplicistica – delle contraddizioni. Come dice Ezequiel Fernández Moores in chiusura, «La vita non è che imparare a conviverci, con le contraddizioni». Che è poi esattamente ciò che sosteneva Guido Morselli: «Negli uomini non esiste veramente che una sola coerenza: quella delle loro contraddizioni».