Cinquant’anni fa il brutale attentato palestinese ai danni degli atleti israeliani ai Giochi di Monaco di Baviera
Il servizio di sicurezza era così all’acqua di rose da poter essere scambiato, alla luce dei tragici fatti, per favoreggiamento. La voglia e l’esigenza dei tedeschi occidentali di far dimenticare al mondo l’immagine estremamente poliziesca della Germania nazista, infatti, aveva indotto il governo di Bonn e gli organizzatori dei Giochi – per garantire l’ordine nel villaggio olimpico e l’incolumità di chi vi alloggiava – a ingaggiare soltanto giovani volontari che, più che guardie, parevano boy scout senza alcuna formazione specifica e addestrati ad intervenire unicamente per ricondurre alla ragione coloro che avessero esagerato con la birra bavarese. Addirittura, quei ragazzi erano stati espressamente invitati a chiudere un occhio verso chi avesse tentato di scavalcare le recinzioni in cerca di autografi e chi, fatte le ore piccole nei locali notturni, rientrando avesse trovato già chiusi i cancelli. Lassismo, ingenuità e impreparazione sono dunque una delle molteplici chiavi di lettura con cui si potrebbe ricordare, a 50 anni esatti, la strage che durante le Olimpiadi di Monaco del 1972 provocò la morte di 11 atleti israeliani e un poliziotto tedesco, oltre all’eliminazione di cinque terroristi palestinesi.
Fu così che, verso le quattro del mattino del 5 settembre, un commando formato da otto attentatori perfettamente addestrati nel corso dell’ultimo anno – con borsoni sportivi riempiti di mitra, pistole e bombe a mano – si fece aiutare ad arrampicarsi sulle reti che delimitavano il villaggio olimpico da alcuni atleti canadesi alticci e ritardatari. Del resto, in quei primi dieci giorni di gare era regnato un clima di estrema rilassatezza, ognuno poteva andare ovunque senza esibire uno straccio di documento, c’era un viavai pazzesco e tutti davano per scontato che chiunque si aggirasse nei paraggi avesse in qualche modo a che fare con la grande kermesse in corso. Penetrare negli alloggi degli israeliani per i terroristi di Settembre Nero – gruppo vicinissimo all’Olp del futuro Nobel per la pace Yasser Arafat – fu ancora più facile: un paio di loro avevano lavorato alla costruzione delle palazzine e, oltre a conoscerne a memoria tutte le planimetrie, grazie ai calchi si erano procurati delle chiavi false.
Benché avessero provato strenuamente a difendersi – riuscendo perfino a ferire uno degli attentatori – i primi due israeliani venuti a contatto coi palestinesi finirono per capitolare e acconsentirono ad accompagnarli alle abitazioni di altri atleti. Fu verso le stanze occupate da lottatori e sollevatori di pesi che guidarono gli aguzzini: speravano che – pur disarmati – grazie alla loro stazza potessero in qualche modo opporsi ai terroristi. E in effetti si batterono per quanto fosse nelle loro possibilità: un israeliano riuscì perfino a fuggire attraverso il garage sotterraneo, mentre un secondo – l’allenatore di lotta Moshe Weinberg –, dopo aver fatto saltare diversi denti a un nemico, venne ucciso da un proiettile partito dal fucile che cercava di strappare dalle mani di un fedayyn. A difendersi a oltranza – benché limitato dalle stampelle con cui era costretto a muoversi dopo essersi infortunato in allenamento – fu pure Yossef Romano, trentuno anni, padre di tre figli e veterano della Guerra dei sei giorni.
Il suo coraggio fu punito dagli attentatori nel modo più atroce: fu dapprima stuprato da diversi palestinesi e infine evirato – davanti agli occhi dei suoi compagni di squadra e di sventura – secondo l’antica prassi dei pirati saraceni. Di fronte a un simile scempio, gli altri israeliani finirono per desistere: furono tutti legati e ridotti a ostaggi da usare nel corso delle negoziazioni che i terroristi stavano apprestandosi a condurre.
L’atleta fuggito incrociò una troupe della tv statunitense Abc, provò a raccontare in un inglese zoppicante quanto stesse accadendo nella sua palazzina, ma – in mutande e trafelato com’era – fu creduto preda dell’Lsd e le sue parole vennero bellamente ignorate. Un po’ più di considerazione fu data a una donna delle pulizie che, uditi alcuni spari, telefonò all’ufficio della sicurezza. Una giovane marmotta fu dunque spedita sul posto a dare un’occhiata e un terrorista incappucciato, dal balcone, gli lanciò addosso il cadavere di Weinberg. A quel punto, scattò finalmente l’allarme. I palestinesi chiesero la liberazione di 234 loro compagni detenuti nelle prigioni israeliane e di Andreas Baader e Ulrike Meinhof, leader terroristi della celebre Rote Armee Fraktion, incarcerati nella Germania occidentale. Se entro le 9 del mattino la richiesta non fosse stata evasa, avrebbero ucciso un ostaggio per ogni ora di ritardo accumulato. Da parte tedesca, le trattative furono condotte nella più totale improvvisazione e inadeguatezza, rompendo più volte le promesse fatte ai terroristi e mettendo così in ulteriore pericolo gli israeliani. Imbarazzante all’estremo fu pure il tentativo delle teste di cuoio di penetrare nella palazzina passando dal tetto con l’intenzione di raggiungere poi gli attentatori e gli ostaggi lungo i condotti dell’aerazione: iniziativa nobile, nulla da dire, ma messa in atto senza sincerarsi che nessuno filmasse l’operazione. E infatti la tv di Stato riprese ogni cosa, mandandola in diretta mondiale. Fra i telespettatori, ovviamente, c’erano gli stessi terroristi asserragliati, che reagirono infliggendo agli ostaggi nuove violenze e minacciando di eliminarne qualcun altro, nel caso si fossero ripetuti episodi simili. Alla fine, verso le dieci di sera, le autorità concessero ai sequestratori un paio di elicotteri con cui raggiungere l’aeroporto, da cui un Boeing 727 li avrebbe poi condotti al Cairo, in Egitto, insieme agli ostaggi.
Dilettantesco si rivelò pure il coordinamento delle azioni militari. Caos e impreparazione erano tali da lasciare ampio spazio ad iniziative personali che, di continuo, contraddicevano gli ordini impartiti. Contrattempi e malintesi furono clamorosi, tanto che alcune unità di intervento si diressero addirittura verso l’aeroporto sbagliato, salvo poi – informate dell’errore – andare nel panico e, nel tentativo di invertire la rotta, provocare tamponamenti a catena e ingorghi al traffico che resero vano il contrordine. In quella confusione, il blitz che prevedeva l’eliminazione di tutti i terroristi e il salvataggio di tutti gli ostaggi naturalmente fallì: scoperto facilmente il tranello, i palestinesi uccisero ogni singolo ostaggio israeliano ancora all’interno degli elicotteri – portando il totale dei morti a 11 – e poi si lanciarono verso i cecchini tedeschi, i quali erano così male comandati e sistemati che, oltre a cinque terroristi, fecero fuori anche uno dei loro colleghi tiratori, improvvidamente piazzato sulla linea di tiro.
La faccenda fu così mal gestita che, in seguito, fu imposto il silenzio assoluto e imperituro a qualsiasi membro della polizia o dell’esercito della Germania Ovest che avesse partecipato alle operazioni condotte quel giorno, pena l’immediato licenziamento e la confisca dei benefici pensionistici. Eccessiva – e sospetta – parve invece negli anni seguenti la morbidezza delle pene comminate ai tre terroristi superstiti e la tendenza delle autorità tedesche a cedere, per paura di altri attentati, ai ricatti posti a più riprese dai palestinesi. Un accordo fra il governo germanico e i parenti delle vittime della strage – raggiunto soltanto cinque giorni fa – prevede del resto non solo un risarcimento in denaro, ma anche l’istituzione di una commissione di storici tedeschi e israeliani che rivaluti i fatti di cinquant’anni fa, oltre all’ammissione da parte di Berlino di gravi responsabilità politiche in relazione alla morte di Yossef Romano e dei suoi dieci compagni.
Per ciò che concerne lo sport, diremo infine che l’allora presidente del Comitato olimpico Avery Brundage – noto ammiratore di Hitler – ordinò che le gare continuassero normalmente, e infatti proseguirono per tutta la mattinata. Fu solo a malincuore che acconsentì alla sospensione delle competizioni in scaletta nel pomeriggio. Alla cerimonia di commemorazione allestita l’indomani, Brundage nel suo discorso riuscì a evitare il minimo riferimento alle vittime dell’attentato ed ebbe il coraggio di paragonare la strage del 5 settembre all’esclusione dai Giochi della Rhodesia razzista, votata contro il suo volere. "Crimini di uguale gravità", li definì senza vergogna. Del resto, parliamo dell’uomo che pretese e firmò la radiazione degli statunitensi afroamericani Carlos e Smith dopo l’episodio dei pugni guantati di nero a Città del Messico nel 1968.
Triste fu inoltre constatare che nel 2012, in occasione delle Olimpiadi di Londra, il Cio rifiutò di ricordare ufficialmente le vittime del brutale assalto di 40 anni prima, forse per evitare la vergogna di dover ammettere imbarazzanti e gravi mancanze. Lo sport dunque – per convenienza o ingenuità da molti considerato un’isola di pace e fratellanza – in realtà è sempre stato, oltre che mezzo di propaganda politica, pure bersaglio per azioni criminali. In special modo i Giochi, tant’è vero che un altro attentato fece due morti, purtroppo, anche alle Olimpiadi di Atlanta del 1996.