Il presidente di World Athletic torna sulla questione delle atlete iperandrogine o transgender. ‘È importante dar seguito alle ricerche che abbiamo fatto’
Il giorno dopo la presa di posizione del Cio, a scendere in campo tocca alla Federatletica internazionale, che per bocca del suo presidente Sebastian Coe annuncia di non voler cambiare il regolamento nei confronti delle atlete iperandrogine, quelle ragazze considerate un po’ troppo maschili (come ad esempio la sudafricana Caster Semenya) iscritte alle competizioni destinate alle ragazze. «Ho letto le nuove linee guida del Cio, e vanno nella direzione in cui noi crediamo, cioè nel principio di una competizione equa», dice Coe. Quel documento stilato dal Comitato olimpico internazionale, che fa dell’equità, dell’inclusione e della non discriminazione a livello di genere gli obiettivi da perseguire, non si traduce però in un’uniformità livello globale, lasciando a ogni singola federazione internazionale stabilire i criteri per la partecipazione degli atleti ‘intersex’ oppure transessuali alle varie competizioni internazionali.
Nel caso di World Athletic, un tempo nota con l’acronimo di Iaaf, le regole rimarranno quelle in vigore dal 2018, quando la Federazione internazionale di atletica iniziò a imporre alle ragazze che presentavano un eccesso naturale di ormoni maschili di porvi rimedio, sottoponendosi a trattamenti per l’abbassamento dei tassi di testosterone nel sangue per potersi iscrivere a determinate gare. «Tutti i nostri regolamenti rinarranno in vigore come lo sono ora – ha spiegato Coe davanti ai giornalisti –. È molto importante dare seguito alle ricerche che abbiamo fatto, ma condividiamo il desiderio di assicurarci che le regole rispettino i diritti umani fondamentali, e crediamo sinceramente che sia così». Regole che, però, avevano subito sollevato polemiche, soprattutto da parte della già citata Caster Semenya, la quale aveva rifiutato di sottostare a tali regole, perdendo tuttavia la propria battaglia davanti alla giustizia sportiva, in particolare davanti al Tas. Appellandosi al Tribunale arbitrale dello sport, l’atleta sudafricana aveva detto di essersi sentita trattare come una «topo da laboratorio» nel periodo in cui aveva accettato di seguire un trattamento ormonale, nel 2010, sostenendo inoltre che la sua vita privata non era stata rispettata in occasione degli esami per stabilire la sua femminilità.