Dal Rally del Ticino, passando per gli States e le Nascar fino al Trofeo Lamborghini. ’Se hai un obiettivo, devi dare tutto te stesso per raggiungerlo‘
Questa è la storia di un ragazzo che aveva un sogno, e un bel giorno s'è detto che era giunto il momento di realizzarlo. «Avevo vent'anni, quando i miei genitori mi dissero: o vai avanti con le tue gambe, 'o te vé a lavurà'. È a quel punto che ho cominciato a fare ciò che volevo, ma riuscendoci da solo. Il discorso è questo: se hai un obiettivo, se hai un sogno, dai tutto te stesso per raggiungerlo. Poi puoi farcela o non farcela, ma almeno ci hai provato».
E così ne ha fatta di strada, quel Kevin Gilardoni ancora bambino che consumava gli pneumatici dei kart, e i soldi di papà, sull'asfalto di Magadino. «Ricordo benissimo quella prima volta – spiega il ventinovenne pilota nato a Grandola, sul Lago di Como, e poi trapiantato in Mesolcina, a Soazza, dove ancora vive –. Credeva di portarmi a fare un giretto per poi riportarmi a casa, invece a fine pomeriggio ero ancora lì. Quando ci tornammo la domenica dopo (sorride, ndr), si chiese se economicamente non fosse il caso di comprarne uno».
In altre parole, se il virus dei motori t'ha contagiato, la colpa è anche un po' sua... «Ma non è mai stata una forzatura – aggiunge –. Però sì, mio padre quella passione l'ha sempre avuta, pur se a suo tempo mai ha potuto correre. Io invece a due anni ero già in sella a un trial monomarcia, quello piccolino, e un anno dopo scorrazzavo nei prati un un go-kart da cross. Finché, appunto, arrivò il mio primo vero kart. E, curiosità, l'ereditai da Stefano Comini».
Quando, l'anno scorso, per la prima volta hai messo piede in una Huracán St Evo, t'è capitato almeno per un attimo di ripensare a quei pomeriggi a Magadino? «Ti dirò, prima ero uno che viveva molto le cose di pancia, ma nel frattempo ho imparato a gestire le emozioni: quando arrivi a determinati livelli, se ti lasci guidare unicamente da quelle rischi di fare le scelte sbagliate. Per esempio, se arriva un amico e mi dice: dai per favore, vieni a fare questa gara, mentre invece io so che, anche se mi costa mille franchi in più, andando da quell'altro tizio che neppure mi saluta avrò in mano una macchina che vola, be' io scelgo la seconda opzione. Perché io devo guardare ai risultati. Però, sì, certamente mi è capitato di ripensare ai quei momenti in cui tutto è iniziato. In particolare, quando ho messo la firma sul contratto come istruttore e tester per Lamborghini».
Ora è quello il tuo mondo, soprattutto visto il tuo impegno nel Super Trofeo Europa, campionato monomarca del marchio bolognese. Eppure, quando sei balzato agli onori delle cronache l'hai fatto soprattutto grazie a quelle tre vittorie di fila al Rally del Ticino, due al volante di una Hyundai i20 Wrc (nel 2016 e nel 2018) e una terza a bordo su Ford Fiesta Wrc. La domanda che qualcuno si potrà porre, a questo punto, è cosa ci faccia un rallista su una supercar?. «Davvero una buona domanda. Provo a riassumere il concetto in una battuta: sono andato dove c'erano soldi. Non certo dove potevo arricchirmi, bensì semplicemente dove potevo correre. Io, dopo i kart, avevo sempre corso in pista, nelle varie formule con Fontana, Comini e gli altri piloti ticinesi, fino ad arrivare nel 2012 in Formula Renault, quando ho vinto il campionato italiano. Per salire ancora, tuttavia, servivano soldi, tanti soldi».
E così, nel 2013 hai scoperto l'America... «Fu grazie a Max Papis ed Emerson Fittipaldi che ebbi l'opportunità di conoscere quel mondo, di fare il mio debutto in una gara Nascar. Quello fu un anno e mezzo in cui ho fatto di tutto: il gommista, il meccanico, ho lavorato in una lavanderia... Insomma, ne ho viste un po' di tutti i colori, prima di capire che quella non era la mia terra. A quel punto mi sono posto una domanda retorica: se io fossi un mio sponsor, dove mi piacerebbe vedere pubblicizzato il mio marchio? In Ticino naturalmente, non negli Stati Uniti o in Ungheria. Ecco il perché del Rally del Ticino, a cui tra l'altro parteciperò pure quest'anno. Così ho creato un network tra le aziende che mi sostengono, promuovendole sul territorio dove loro hanno un proprio tornaconto, anche grazie alle conoscenze del gruppo. È questo ciò che ho creato per andare avanti».
Quella strada, appunto, t'ha portato al Super Trofeo Lamborghini. Dove tra l'altro, grazie al doppio successo a Le Castellet a fine maggio, in coppia con il romano Leonardo Pulcini, ora sei in vetta alla graduatoria alla vigilia del terzo appuntamento stagionale, in Olanda. «È vero siamo primi, ma siamo solo a metà campionato e ci sono così tanti punti in palio... A me piace fare un passo alla volta, senza guardare troppo avanti. Quindi vado, cerco di fare il meglio in quella gara e poi alla fine si tirano le somme: se hai fatto un ottimo lavoro, il risultato sarà la conseguenza di ciò che hai fatto. Del resto, mi hanno sempre insegnato che la vittoria più bella è quella che deve ancora arrivare, così questo weekend andiamo a Zandvoort provando ad alimentare quel vantaggio».
Zandvoort dove, tra l'altro, dopo un'assenza di oltre trent'anni, a settembre torneranno a girare anche le Formula 1. A proposito: chi credi vinse quell'ultimo Gran Premio sullo storico circuito olandese, nel lontano 1985 (si trattò di Niki Lauda, al suo ultimo trionfo in carriera al volante di una McLaren)?. «Ah non so, a quei tempi io non ero neppure nato... Ciò che so è Zandvoort è un tracciato che mi piace molto. Ci ho corso una sola volta, nel 2009, ai tempi in cui ero in Formula Bmw, ma quest'anno ci sono tornato per dei test ad aprile: nevicava, e il termometro in riva al mare segnava due gradi, per capirci... È una pista vecchia scuola con tanti dossi, tanti 'vedo-non vedo', molto tecnica, in cui nel frattempo hanno cambiato due curve, e nell'ultima sembra essere in Nascar, pur se al contrario, perché è a destra. Insomma, è tutta un'altra cosa rispetto alla 'piazzalata' che è il Paul Ricard, dove è tutto asfalto e, per così dire, un po' tutto è concesso».
Non sarà che ti piace così tanto perché, magari, un po' fa riemergere il rallista che era sbocciato in te? «Effettivamente, avendone fatti di rally in questi ultimi sei anni, ho imparato ad adattarmi alle condizioni. Arrivando dalla pista, quando mi sono approcciato ai rally volevo sapere centimetro per centimetro com'era l'asfalto. Ben presto, però, ho dovuto 'denaturalizzarmi', imparando ad andare alla cieca senza sapere cosa c'è, perché è così che vanno le cose. E ora che sono tornato in pista, aver limato questa mia quadratura, senza cioè che per forza debba andare tutto in un determinato modo, mi sta aiutando molto. Tant'è che l'anno scorso, le tre gare sul bagnato o sull'umido le abbiamo vinte noi, tutte e tre».