L'ex campione di nuoto, oggi allenatore della Nuoto Sport Locarno: 'Parlo quando devo, osservo tanto, amo il contatto con i ragazzi. E credo di capirli''
Il giorno in cui rendemmo pubblico il suo arrivo in Ticino, più precisamente alla Nuoto Sport Locarno in veste di allenatore capo, il web fece rimbalzare ovunque la notizia e lievitare il numero dei lettori, evidentemente spinti dalla curiosità e dalla fama del personaggio. Luca Marin, nel frattempo, ha avuto modo di ambientarsi, di familiarizzare con la nuova realtà professionale nella quale si è immerso a inizio anno, salvo però vedersi costretto a interrompere il lavoro.
«A gennaio - ricorda il 34enne ex campione italiano - c’era un po’ di timore, mio e dei ragazzi. Cercavo di capire quale potesse essere l’approccio da avere. Lo scorso novembre, dopo i primi contatti con la società, già avevo capito in quale realtà mi sarei immerso. Avevo voglia che gennaio arrivasse il prima possibile per poter cominciare la nuova avventura. Ho apprezzato molto che mi sia stata concessa la possibilità di portare a termine la collaborazione con un’altra società (ad Aprilia, ndr) con la quale avevo chiesto di poter restare fino a dicembre. La Nuoto Sport Locarno ha rispettato la mia volontà di concludere quel ciclo e mi ha aspettato, in quanto decisa a puntare forte su di me. Ha significato tanto, ho percepito grande serietà e appoggio».
La Sicilia fino a 20 anni, poi Verona, Parigi, Roma e Latina, oggi Luca Marin vive a Vira Gambarogno, a diretto contatto con una realtà molto diversa da quella alla quale era abituato. Che effetto ha avuto questo passaggio, sul piano umano?
«Qui sto molto bene. Mi trovo in una situazione che da allenatore in Italia non avrei mai. Ho casa sul lago, vivo in un posto incantevole, tranquillo. Sono molto vicino all’Italia. Per distrarmi, quando posso, vado a Como o a Milano. Mi manca un po’ il mare, e non poter tornare a casa. Il 20 marzo avrei dovuto tornare a Latina per la prima volta dopo tre mesi, ma non ho potuto farlo. Mi basterebbe una toccata e fuga, per salutare i partenti, ritrovare gli affetti per due o tre giorni, riabbracciare nonna».
Ripercorrere una carriera come la sua, segnata da grandi risultati, da prestazioni di altissimo livello e da un grado di notorietà non comune alla quale hanno contribuito la televisione e il gossip (Marin vanta relazioni sentimentali con l’ex campionessa francese Laure Manaudou e con la regina del nuoto italiano Federica Pellegrini), è un esercizio stimolante. La ‘lettura’ del suo percorso è articolata e intrigante. A partire dal primo capitolo, quello del rapporto con l’acqua.
«Fu traumatico, all’inizio. Odiavo l’acqua. Ho iniziato a nuotare perché avevo problemi di scogliosi. Sono stato costretto per ragioni mediche. Odiavo talmente l’acqua che nuotavo a dorso perché mi dava fastidio riceverla in faccia. Poi, grazie agli allenatori che ho trovato lungo il mio percorso, il rapporto con la disciplina è migliorato, anche perché ho iniziato a vincere qualche gara. Avendo trovato tecnici competenti e capaci, ed essendo portato per il nuoto, il passo è stato tutto sommato breve».
Il problema è nel periodo dell’infanzia, nel quale devi rinunciare a cose tipiche di quell'età, come una gita scolastica o a una partitella di pallone. Da piccolo ogni rinuncia la consideravo un sacrificio, poi però crescendo capisci che sono necessarie al perseguimento di un obiettivo e all’ottenimento dei risultati. Il nuoto esige impegno totale e continuo. Lo stiamo vedendo in queste settimane di totale chiusura, quanto traumatico sia il distacco dall’acqua. Il nuoto è sensibilità, contatto, con l’acqua. Venendo meno quella, viene meno la componente principale della nostra attività».
Il rapporto con l’acqua, un mistero affascinante, una dote non comune. «È la sensibilità a non essere comune a tutti. Ci sono tanti fattori che incidono, dal galleggiamento, allo scivolamento, dalla tecnica alla testa… È una disciplina individuale. Quando nuotavo io, facevo doppie sedute giornaliere da tre ore (18/20 km al giorno), più la palestra. Mentalmente devi essere preparato ad affrontare tali sacrifici. Ne ho visti tanti di giovani emergenti che però non erano pronti a farli».
Che tipo di atleta era Luca Marin? «Sono sempre stato molto disciplinato. Non ho mai accampato scuse per non andare in piscina. All'inizio nuotare è stata una forzatura, ma poi quando ho iniziato ad amare l’acqua mi sono sentito in debito e in dovere di andare a portare a termine il mio compito di giornata. Oltra alla scuola, ho sempre sentito mio anche l’obbligo di andare in piscina».
«Quando nuotavo dicevo che mai avrei fatto l’allenatore. Pensavo piuttosto a un distacco netto. Ho dedicato 26 anni della mia vita, al nuoto, sono tanti. Il pensiero di continuare ad avere a che fare con il mondo dell’acqua per altri 30 o 35 anni, un po’ di timore lo incuteva. Anche perché ti convinci che sei capace di fare solo quello. Nel 2015 e 2016 ho preso i primi brevetti, poi ho proseguito l’iter dei corsi. Impegnandomi a fondo in ambito formativo, ho capito che quella dell’allenatore avrebbe anche potuto essere la mia strada. Già facevo qualcosa al Circolo Canottieri Aniene (Roma, ndr), ma ancora non la vedevo come un'occupazione fissa. Il contatto con gli atleti a me piace. Il rapporto che stavo costruendo con i ragazzi del Locarno mi manca molto».
Il distacco dall’acqua è deleterio, non vedersi e non frequentarsi non è d’aiuto. «Io sono più consapevole di loro di quanto hanno perso, in queste settimane senza acqua. Non se ne rendono conto del tutto, e forse è meglio così. Io però lo so, cosa comporta. Due mesi di stop significa ripartire da zero. Confido che i ragazzi mi diano piena disponibilità, quando ci rimetteremo al lavoro. Lo stop è accaduto a ridosso di una gara importante, i campionati ticinesi. Tutti avrebbero migliorato i propri tempi. Quell’incentivo li avrebbe motivati, spronati, avrebbe agito nella loro testa infondendo nuovi stimoli. Avrebbero toccato per mano i progressi per i quali avevamo lavorato. Purtroppo questo clic mentale è venuto meno. Quando ricominceremo sarà dura. Lo faremo in maniera graduale, ma i chilometri bisogna comunque ricominciare a farli».
Come sportivo di alto livello, si porta appresso un bagaglio di esperienze molto completo: ha lavorato con allenatori diversi, attraversando da protagonista epoche natatorie diverse. Che tecnico è Luca Marin? «Parlo quando devo parlare, mi faccio sentire quando ritengo importante che le mie parole debbano essere ascoltate. Osservo tanto. Capisco subito se un atleta ha un problema, se c’è o meno con la testa, in allenamento. Da atleta avrei voluto un tecnico con queste caratteristiche, ma non sempre è stato così, anche perché con gli obiettivi che avevo, ci stava che i miei allenatori fossero così esigenti e pretendessero che tutto quello era fuori dall’acqua restasse fuori. Ma non è sempre così, non per i giovani come quelli con cui lavoro. Io ho capito a 24 anni quanto complicato fosse il rapporto tra acqua e vita fuori dall’acqua. Quando vedo un comportamento strano da parte di un ragazzino di 13 o 14 anni, capisco le sue difficoltà e scelgo di parlargli, per capire. Ogni allenatore si deve adattare alle potenzialità dei propri atleti. Ho la fortuna di aver lasciato da poco la carriera di atleta, perciò mi sento ancora particolarmente vicino alla realtà degli sportivi, per esserlo stato a mia volta fino a poco tempo fa. Mi è di grande aiuto, questo».
«Ero un ragazzino di 11/12 anni quando il mio allenatore in Sicilia mi disse “noi andiamo ad Atene”. Dai 14 anni in poi il mio obiettivo divenne Atene. Ne avevo 18 quando ci andai. Di Olimpiadi ne ho fatte quattro, ma Atene è quella che più mi è rimasta nel cuore, al di là della finale mancata per soli 8 centesimi (un’inezia, nei 400 misti, ndr). Per la prima volta ha capito davvero il significato di un’Olimpiade: ecco perché è l’edizione che ricordo con maggiore piacere. Non è stata la più bella, ma è quella di cui serbo il ricordo più intenso. Non è facile farne quattro, a maggior ragione nel nuoto, e nella gara che ho sempre fatto io, i 400 misti. Un velocista può staccare un biglietto anche per le staffette, che in palio mettono cinque posti. Nella mia gara si qualificano in due, devi per forza aver nuotato il limite richiesto. A Rio, l’ultima edizione cui ho preso parte, a 30 anni ero il più vecchio di tutti i partecipanti ai 400 misti. Rio non è stata facile per niente. Atene me l’aspettavo per la progressione che stavo facendo in quegli anni. Pechino è stata un po’ sofferta per la questione dei famigerati ‘costumoni’ gommati che a me non hanno giovato. Il 2012 è stato un altro anno complicato, perché ero reduce da un 2011 traumatico. Nel settembre 2011 mi sono affidato alle cure di Massimo Meloni (oggi allenatore capo dello Swiss Swimming Training Base di stanza al Cst Tenero e membro dei quadri tecnici rossocrociati, ndr). Il tempo per ottenere la qualificazione a Londra 2012 non era poi molto. La centrai al meeting dei ‘Sette Colli’, a ridosso dei Giochi: il giorno prima Massimo mi aveva cacciato dalla piscina perché mi lamentavo in acqua nelle fasi di riscaldamento pre-gara. Fu un risultato inaspettato. Il mattino andò solo discretamente, ma nel pomeriggio, senza troppo farmi assillare dal tempo, venne fuori un 4’12 che valse un biglietto per Londra, in quella che fu la mia terza Olimpiade».
Ce ne fu una quarta, però, a Rio, nel 2016: una storia nella storia. «Dopo Londra non ne volevo più sentire parlare. Forse era anche giunto il momento di smettere. Con Meloni mi accordai per un lavoro di un paio di anni su ritmi un po’ meno assillanti. Mentalmente avevo già un po’ staccato, ma ci volevo provare lo stesso. Il problema non era tanto l’età, o l’allenamento in senso stretto, bensì la tipologia della mia gara, che prevede la cura di quattro stili, con dei volumi di lavoro importanti. Mentalmente non è la gara più semplice da affrontare e preparare. Mi ero anche concesso a qualche programma televisivo, per distrarmi un po’. Mettermi in gioco mi piace. Era una sfida anche quella, a determinate condizioni sarei anche disposto a rifarla. Comunque, diciotto mesi prima di Rio ci siamo messi sotto per davvero, e la qualificazione è arrivata inaspettatamente, al primo colpo, agli assoluti italiani. Forse ci credevo più io del mio allenatore. Ogni atleta deve fissarsi degli obiettivi, a lunga come a breve scadenza. Fungono da stimolo, ti invogliano a migliorare, a cercare sempre nuove motivazioni».
Quattro Olimpiadi sono tante. Tante da legittimare un atleta a darsi una bella pacca sulle spalle e a battersi il petto con orgoglio, a fine carriera. «L’ho fatto quando ho ottenuto il limite per Rio. Mi sono proprio detto “bravo Luca, ce l’hai fatta”. Da quel giorno ho staccato per davvero. Il mio traguardo era raggiunto. Il mio obiettivo era la partecipazione ai Giochi di Rio, e me l’ero garantita. Non ero disposto ad andare a fare una figuraccia, ma a 30 anni ero perfettamente consapevole di quanto fosse difficile rimanere ai massimi livelli, confrontato a giovani colleghi emergenti. Ricordo che con Meloni iniziò una simpatica lotta di motivazioni: gli dissi che con in tasca il biglietto per il Brasile io non sarei più andato in piscina, che ci saremmo rivisti direttamente a Rio, e lui ovviamente si arrabbiava. L’impegno ci è stato, senza dubbio, ma sapevo che forse non avrei raggiunto la finale (fu 16esimo, ndr). Il mio obiettivo era partecipare per fare la quarta Olimpiade. E quattro sono tante, sì».