NUOTO

Dalla parte degli atleti

La rivolta di Mack Horton e Duncan Scott contro le ombre di doping che accompagnano Sun Yang deve convincere chi lotta contro il doping a darsi una mossa

25 luglio 2019
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«Le sue azioni e il modo in cui è stata gestita l’intera faccenda la dicono lunga». Parole e rabbia di Mack Horton, campione australiano passato alla storia dei Mondiali di nuoto di Gwangju per il clamoroso gesto in occasione della premiazione dei 400 vinti dal cinese Sun Yang, accusato senza mezzi termini dall’australiano di essere un «truffatore dopato». Non è salito sul podio, non ha stretto la mano al vincitore della gara, e non si è unito a lui e all’italiano Detti per la foto di rito.

Coerente con la linea dura che ha sposato da tempo – è impegnato in dimostrazioni contro la scarsa attenzione in casi di ambiguità legati al doping che purtroppo nel nuoto non mancano – ha espresso tutto il suo dissenso in maniera plateale e molto efficace.

Il riscontro e il sostegno che ha avuto depongono a favore della validità della tesi che ha sostenuto e difeso in mondovisione, lanciando una precisa accusa: il plurititolato cinese ha un paio di scheletri nell’armadio, e candido non è. Con l’aggravante che nemmeno è stato fatto abbastanza per smascherarlo e punirlo.

Nell’ambiente, evidentemente, la pensano tutti così. Tuttavia, dirlo apertamente è molto più difficile che esserne solo convinti. Così, una volta aperto il varco, ci si è infilato anche il britannico Duncan Scott, terzo nei 200, salito sì sul podio, ma senza stringere la mano al cinese ancora una volta vincitore, il quale lo ha apostrofato dandogli del ‘perdente’.

Imbarazzo, tremendo imbarazzo, per la federazione internazionale, costretta a fare i conti con la protesta vibrante degli atleti, che hanno salutato Horton alla stregua di un eroe. Paladino di una giustizia che la Fina non è riuscita a fare per un vizio di forma. Sun Yang c’è, e vince, nonostante in gennaio avesse distrutto a martellate le provette di un controllo antidoping durante un litigio con un incaricato, per una procedura che non riteneva regolare.

C’è puzza di bruciato. Horton ha sollevato il coperchio del calderone dal quale l’odore sgradevole proviene.

Il suo strepito non è stato vano: la solidarietà dei colleghi è stata spontanea e diffusa, a dimostrazione che, se il dissenso viene dall’interno, c’è ancora speranza per gli onesti, a fronte dell’auspicato bando per i bari.

Sarà il tribunale dello sport a esprimersi, in settembre, sulle martellate che hanno mandato in frantumi le provette, facendo schizzare ovunque le schegge del dolo. Altre federazioni, in casi come questi, sospendono l’atleta in attesa di giudizio, e pretendono la procedura veloce per smarcarsi da sospetti ingombranti. Quella cinese, che ha poca voglia di privarsi di un atleta pluridecorato, squalificato solo per tre mesi nel 2014 per uso di sostanze stimolanti così da favorirne il ritorno in tempo per i Giochi asiatici, non lo ha fatto. Il risultato? La gogna, e tanti indici accusatori puntati addosso.

Eclatante, bella, la ribellione degli atleti. Bene hanno fatto ad alzare la voce, benché non possano certo ergersi a giudici. C’è un iter da seguire, ma intanto la condanna la si può fare sentire. Esprimendo tutta la loro rabbia, hanno dato un segnale forte. Forte quasi come una squalifica. La loro parte l’hanno fatta. Ora pretendono che le rivendicazioni trovino il conforto degli organismi preposti alla giustizia che invocano.

Ci voleva, una levata di scudi così. Chissà che possa rappresentare una svolta, e convincere chi lotta contro il doping a stringere i bulloni per evitare che si torni a parlare di leggerezza, vizio di forma o superficialità, per questioni che meritano invece la massima severità.