Né debole né matto è colui che si avvicina a un percorso di psicoterapia. Eppure ancora oggi è difficile parlarne serenamente con gli altri
Ancora oggi ci sono delle domande molto semplici a cui, tuttavia, può essere estremamente difficile rispondere: sei in psicoterapia? Stai andando dallo psicologo? Chi si trova dall’altra parte del punto di domanda può trovarsi seriamente in difficoltà, come se ci fosse qualcosa di male, di sbagliato, da nascondere. Infatti, vi è tuttora un clima di pregiudizio e timore nei confronti della psicoterapia legato a fattori socio-culturali ed emotivo-personali; oltre che a una non conoscenza rispetto al cosa significhi realmente fare psicoterapia. Fin dagli albori della civiltà, non è mai stato un problema per gli esseri umani rivolgersi alle divinità, agli astri, all’aldilà e alle energie cosmiche, per chiedere e trovare aiuto soprattutto in merito al proprio benessere e alla propria salute. Ancora oggi è possibile dare una lettura al proprio oroscopo e sentirsi rassicurati o contenti in base a quanto scritto, potendo anche affermare ad alta voce di “non credere a queste cose”. Anche soluzioni più semplici e immediate, quali andare a fare shopping o recarsi al bar tutte le sere, risultano più accettabili e condivisibili, scevre da vergognose ripercussioni sociali e personali.
L’accesso a tali ausili viene vissuto in maniera tranquilla e senza particolari preoccupazioni: posso pensare di non trovare l’amore perché sono nato sotto una cattiva stella (senza giudicarmi o aver paura di essere giudicato), mentre posso incontrare molte più difficoltà a decidere di intraprendere un percorso di psicoterapia poiché soffro il fatto di non trovare l’amore e vorrei capire come mai e come porvi rimedio.
In una società nella quale non vi è spazio per la fragilità e per la quale bisogna sempre essere performanti e avere il controllo di sé e della situazione, diventa oneroso poter chiedere aiuto a un professionista e poter condividere questa richiesta all’interno del proprio contesto di vita.
La questione sembra poter essere letta anche in questi termini: un percorso terapeutico, per definizione, pone sia il problema che la soluzione all’interno della persona stessa, il sintomo e la sua cura sono sotto la responsabilità del soggetto, le forze che si oppongono alla propria totale realizzazione sono le proprie. Guardare alle stelle ci permette di spostare lo sguardo altrove, lontano, e con esso mettere al di fuori di noi anche tutto il fardello della gestione, della responsabilità, dello sforzo e del dolore per il cambiamento. Non è un caso, dunque, che ancora ai giorni nostri la psicoterapia abbia a che fare con pregiudizi personali, sociali e culturali tuttora molto forti.
Riflettendo su quelli che sembrano essere, ancora oggi, i maggiori ostacoli a un accesso sereno e accettabile alla psicoterapia, si possono identificare tre macro-aree di pregiudizio: quella della pazzia (dallo psicologo ci vanno i matti), quella della vulnerabilità e fragilità (dallo psicologo ci vanno i deboli, quelli che non ce la fanno da soli), quella della perdita di controllo, paventata o desiderata (lo psicologo ti fa il lavaggio del cervello o lo psicologo mi leggerà nella testa e potrà risolvere e cambiare tutto ciò che non va).
Una domanda può sorgere spontanea: come mai questi pregiudizi sono così pregnanti e incisivi da resistere al trascorrere del tempo?
Probabilmente perché parlare dei pregiudizi nei confronti della psicoterapia diventa immediatamente parlare delle angosce profonde dell’animo umano. Tali angosce, in modo più o meno integrato, più o meno consapevole, appartengono a tutti noi (citando Terenzio “sono un essere umano, niente di ciò ch’è umano ritengo estraneo a me”) e, inevitabilmente, una volta spostato lo sguardo da “molto lontano, fino alle stelle” a “molto vicino, fino all’interno” esse vengono viste, sentite, sofferte.
All’interno dell’ambito psicoanalitico, tali angosce vengono definite come angoscia di castrazione, angoscia di frammentazione e angoscia di intrusione/perdita dell’oggetto. Tali ataviche paure psichiche permeano l’inconscio dell’essere umano, in misura maggiore o minore a seconda della struttura di personalità di ciascuno di noi; senza inoltrarci nei meandri della metapsicologia, possiamo declinare tali paure nella quotidianità dell’essere umano.
L’angoscia di castrazione richiama il timore di “essere mancante”, il timore dell’imperfezione e quindi la ricerca costante di un sé performante, quasi onnipotente (“non posso essere debole, ce la devo fare con le mie forze”). Quella di frammentazione è, invece, la paura di andare psichicamente in pezzi, perdere il contatto con noi stessi e la realtà che ci circonda (“diventare matto”). Il tema evocato dall’angoscia di intrusione/perdita è quello inerente al timore di essere troppo vicino o troppo lontano dall’altro, in un costante oscillare di non regolazione della distanza interpersonale ed emotiva. La vicinanza e la distanza dall’altro sono allo stesso tempo desiderate, ma anche temute in una continua tensione non regolata e non regolabile (“se mi avvicino troppo mi legge nella mente, meglio scappare” o viceversa “come è possibile che non riesca a risolvere lui i miei pensieri? Meglio scappare, è un incompetente”).
Le tre aree di pregiudizio sembrano, dunque, sovrapporsi a tre delle principali angosce umane: mettersi a confronto con noi stessi significa mettersi a confronto con queste ultime e con la paura dell’ignoto, del non sapere cosa succederà una volta sentite e pensate, ammesse ad alta voce.
Tutto ciò si appoggia sulle basi culturali e sociali del nostro tempo che, in alcune derive, sembrano fornire solidi ancoraggi ai pregiudizi.
I miti della nostra epoca, infatti, propongono e vantano una narrativa che si situa esattamente sul versante opposto delle paure sopracitate. Un “vero uomo” deve essere forte e impavido, senza punti deboli e senza bisogno di aiuto, nel pieno e totale controllo del suo ambiente interno ed esterno, indipendente e autonomo al limite dell’onnipotenza autarchica. E una “vera donna”, per essere tale, deve assomigliare molto a un vero uomo. Le falle nel sistema non sono ammesse volentieri, vanno immediatamente nascoste, colmate, mascherate; pena lo scherno pubblico, la vergogna e il giudizio altrui. La fragilità emotiva e psichica provoca, a volte, addirittura fastidio negli altri: un fastidio che cela quella paura inconsapevole, ma ben radicata, che la massima di Terenzio ricorda. Ecco che, allora, non si deve essere tristi, bisogna combattere i brutti pensieri, ci si deve sforzare di non agire o sentire più in un determinato modo; allontanarsi dall’esposizione all’umiliazione pubblica e dalla vicinanza alle angosce profonde che abitano dentro di noi.
Attorno al pregiudizio nei confronti della psicoterapia, dunque, ruotano angosce interiori profonde e paure sociali altrettanto solide e vigorose. Intraprendere un percorso terapeutico significa proprio affrontare tali angosce, abitanti il nostro mondo interno, mettendosi in discussione e confrontandosi con sé stessi: è un lavoro impegnativo, lungo, che richiede costanza, energia e pazienza. Anche queste virtù che, ahimè, non collimano con le richieste di una società che va sempre più veloce, che è sempre meno indulgente e che spinge al massimo risultato possibile nel minor tempo possibile. Essere pazienti, nella sua duplice accezione di “persona in cura” e di “persona dotata di pazienza”, risulta essere dunque una qualità che trova poco spazio di espressione. Mettere in gioco sé stessi, contro gli stereotipi del proprio contesto di vita e contro i propri mostri interiori, risulta dunque essere un cammino impervio e caratterizzato, sovente, da lunghi tratti di solitudine. Il pregiudizio e la paura della psicoterapia sembrano essere connaturati alla stessa esistenza dell’animo umano, in qualche modo mai davvero completamente superabili. Nulla di strano, quindi, che lo psicoterapeuta sia guardato con maggior sospettosità e diffidenza di un qualsiasi altro tipo di professionista della salute (fisica, mentale, spirituale).
Allontanarsi, a poco a poco, da quelli che sono i canoni culturali dominanti è il primo e fondamentale passo per permetterci di approcciare il cammino attraverso le nostre angosce senza dover temere il giudizio altrui (o il proprio), ma anzi sapendo che si troveranno molti compagni di viaggio con i quali si condivide la stessa intrinseca e complicatissima natura umana. Ogni essere umano mette in campo quotidianamente tutta una serie di difese e resistenze (più o meno consapevoli) per cercare di far fronte alle proprie fragilità, alle proprie zone buie, al timore delle proprie strade senza uscita. Impossibile non sentirsi mai, durante l’arco della vita, intrappolati in un vicolo cieco, spaventati o arrabbiati, intimoriti o frustrati, alla ricerca della strada che porti al di fuori del labirinto sintomatologico della sofferenza.
Tale ricerca sarebbe sicuramente meno complicata e angosciante se potesse venir condivisa senza il timore di venire giudicati o di non venire ascoltati, creduti e sostenuti. E come in tutti gli altri campi dello sviluppo umano, è la conoscenza che crea la libertà e la possibilità: il sapere, l’informazione e il conoscere permettono all’umano, da sempre, di autodeterminarsi progredendo a livello personale e di gruppo.
Mettersi a nudo davanti al terapeuta e a sé stessi, guardarsi allo specchio con sincerità, acquisire una consapevolezza di sé e delle proprie fragilità non è sicuramente facile e può spaventare, ma potersi sentire liberi di farlo, senza venir giudicati o etichettati lo agevolerebbe sicuramente. Riuscire a trovare una narrazione comune che permetta di sentirsi giusti, normali, umani nel provare tutto ciò è quello che potrebbe dare una svolta alla situazione. E un primo passo importante in questa direzione potrebbe essere quello di ricordarsi che la cosa più coraggiosa è essere deboli.