L'analisi

I Giochi si disputano per le medaglie, si vivono con le emozioni

Le Olimpiadi invernali chiusesi a Pechino hanno regalato una miriade di sensazioni, dalle più felici (tante le gioie per i rossocrociati) alle più cupe

21 febbraio 2022
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Le Olimpiadi si disputano per le medaglie, si vivono con le emozioni. Due fattori strettamente legati, anche se non in una relazione esclusiva, con i Giochi che formano un ecosistema unico all’interno del quale prosperano storie e racconti che vanno ben oltre l’aspetto del risultato. Che rimane però, inevitabilmente, il primo generatore delle suddette emozioni, per gli atleti e di riflesso per il pubblico, vicino e lontano. Pechino 2022 non ha fatto eccezione, con le prestazioni degli sportivi che hanno però dovuto lottare forse più che mai con un contesto per più motivi piuttosto freddo – e più che alle temperature ci riferiamo alle restrizioni legate alla pandemia con in particolare la mancanza quasi totale di pubblico e di interazione con la popolazione locale (al di fuori dei volontari) – e a tratti surreale – lingue di neve artificiale su pendii spogli e strutture inserite in quadretti springfieldiani – per accendere l’entusiasmo. E per farlo arrivare, nel nostro caso, fino in Europa, con il fuso orario che non ha certamente aiutato.

Svizzera trascinata dallo sci alpino

Sì, hanno lottato anche per questo i nostri eroi, e alla fine hanno vinto. Anche chi ha perso. A livello di numeri, seppur non raggiungendo l’obiettivo stabilito di quindici medaglie (ma non è detta l’ultima parola visto il ricorso inoltrato da Swiss Olympic per il bronzo “scippato” a Fanny Smith), la delegazione rossocrociata ha portato a casa uno dei bottini più importanti di sempre a una rassegna a cinque cerchi invernale: 14 allori, come nel 2006 a Torino, meno solo del record di 15 centrati quattro anni or sono a Pyeongchang e nel 1988 a Calgary. Gli ori, ben 7 (a cui si aggiungono 2 argenti e 5 bronzi) hanno invece eguagliato il massimo toccato nel 2014 a Sochi. Paragoni forse non sempre “sinceri” se si pensa ad esempio che nell’88 le competizioni erano state 46 e avevano distribuito 138 medaglie, mentre stavolta in Cina si sono disputate ben 109 gare per 327 posti sul podio, ma comunque significativi. Oltretutto, a dar ulteriore peso alla collezione di medaglie raccolte a Pechino dagli elvetici, il fatto che ben 9 su 14 (ossia il 64%) siano arrivate nella disciplina regina, lo sci alpino, che ha portato nel carniere confederato 5 dei 7 titoli agguantati a sto giro (il 71%). Da questo punto di vista, considerando le edizioni in cui la Svizzera ha ottenuto almeno sei podi, solo a Calgary gli “alpini” hanno fatto meglio, con Michela Figini (argento in superG) e compagni che avevano assicurato 11 delle 15 medaglie totali (73%), mentre ad esempio a Pyeongchang tale dato non superava il 46% e addirittura il 9% (1 su 11, il minimo storico) nel 2002 a Salt Lake City. Non sorprende quindi che in Cina lo sci alpino svizzero abbia firmato un record assoluto per quel che riguarda i Giochi invernali: mai nessuno nella storia aveva collezionato cinque titoli in una singola edizione.

Questi i numeri, ma le emozioni? Tante, troppe per elencarle tutte, con alcuni fotogrammi che ci sono però rimasti impressi più di altri. Inevitabilmente molti sono legati proprio ai colori rossocrociati e alle piste di Yanqing, cominciando da una Lara Gut-Behrami che si è infine lasciata andare – per qualche istante, sia mai – a lacrime sincere e a un affettuoso quanto significativo abbraccio con papà Pauli dopo un oro in superG (oltre al bronzo in discesa) che l’ha consacrata tra i più grandi di sempre dello sci mondiale. Dove un posto l’ha certamente anche Beat Feuz, il quale ha ceduto alla commozione di una videochiamata con compagna e figlie dopo aver suggellato una straordinaria carriera con il titolo in discesa. E dove l’avrà Marco Odermatt, più forte della pressione data dal ruolo di favorito nonché da una prima settimana pechinese sotto le aspettative e capace di mettersi al collo l’oro in gigante. Dalle lacrime amare a quelle dolci, il passo è stato breve per Michelle Gisin, come Lara reduce da una stagione travagliata (lei per la mononucleosi) e capace di rialzarsi dopo la delusione per la medaglia mancata in slalom andandosi a prendere il bronzo in superG e l’oro in combinata, imitata nel doppio podio da una Wendy Holdener tanto fragile quanto combattiva (seconda dietro a Gisin e terza in slalom). È invece solo una ma di quelle pesanti la medaglia messa al collo da Corinne Suter, ora campionessa olimpica e mondiale di discesa in carica. Dal settore alpino ci ripassano davanti agli occhi pure la fierezza (anche un po’ ticinese, grazie a Mauro Pini) della slovacca Petra Vlhova (primo oro per la sua nazione, nello slalom) e la dignità di una Mikaela Shiffrin che dopo aver accumulato solo delusioni sui pendii cinesi, si è dimostrata una grande Signora fuori dalla pista, relativizzando la débâcle e respingendo con classe ignobili offese sui social.

A proposito di Signori, due tra i più grandi dello sport elvetico, Simon Ammann e Dario Cologna, hanno salutato senza acuti ma a testa alta un contesto olimpico che ha dato loro tantissimo (e viceversa), mentre sport meno tradizionali ma non per questo meno nobili ci regalavano altre istantanee indelebili: il bronzo tanto sorprendente quanto meritato trovato dal sangallese Jan Scherrer nell’halfpipe, nel quale ha piazzato il suo snowboard davanti al mostro sacro della disciplina Shaun White, alla sua ultima Olimpiade; il sorriso sincero e spontaneo della friborghese Mathilde Gremaud, oro e bronzo nello sci freestyle (slopestyle e big air); quello un po’ incredulo e sornione del bernese Ryan Regez, pure lui sul gradino più alto del podio nello skicross, oltretutto davanti al connazionale Alex Fiva. In una disciplina quest’ultima che ha forse vissuto uno dei momenti più imbarazzanti, incomprensibili e apparentemente ingiusti di questi Giochi, con il podio tolto a Fanny Smith da una decisione della giuria apparsa appunto ingiustificata. E alla quale si cercherà come detto di porre rimedio rivolgendosi alla giustizia sportiva.

Tra i grandi delusi anche il nostro Marco Tadè

Giustizia – più che altro divina – dalla quale si è sentito in un certo senso abbandonato il nostro Marco Tadè, che dopo aver lottato in tutti i modi e contro mille difficoltà per essere presente a Pechino, si è mostrato inconsolabile davanti alle telecamere in seguito al 18esimo posto nel moguls (gobbe). Strappando un sorriso a chi ancora non lo conosceva (è rapidamente diventato virale sui social), facendo stringere il cuore a chi come noi ha seguito il 26enne di Tenero in questi anni non facili. Se troverà la forza di riprovarci non lo sappiamo, noi glielo auguriamo. Così come un plauso per il coraggio lo facciamo anche alla 19enne leventinese Mida Jaiman, messasi in gioco con i colori del suo Paese d’origine (la Thailandia) nello sci alpino, senza tuttavia riuscire a completare né il gigante né lo slalom.

Forse non quanto Tadè, ma tra i grandi delusi troviamo anche gli altri freestyler elvetici Ragettli (sci slopestyle) e gli uomini degli aerials, Justin Murisier (combinata alpina), il bob a due maschile, le ragazze del curling e quelle dell’hockey, tutti costretti ad accontentarsi di una medaglia di legno. Per non parlare in queste due ultime discipline delle squadre di Peter De Cruz e di Patrick Fischer, rimaste ben lontani dalle medaglie nonostante le ambizioni fossero ben altre.

Gu e Valieva, due facce della stessa medaglia

Alcuni potranno riprovarci tra quattro anni a Milano e Cortina, dove sarà certamente tra gli sportivi più attesi uno dei personaggi di questa rassegna, la 18enne per metà cinese (colori che ha difeso) e metà americana Eileen Gu, capace di conquistare tutti con il suo sorriso ma soprattutto con le sue evoluzioni nel freestyle, che le sono valse due ori (big air e halfpipe) e un argento (slopestyle). Chi invece a sto punto avrebbe forse preferito non finire sotto i riflettori è la 15enne pattinatrice russa Kamila Valieva, dopo aver vinto l’oro a squadre crollata nel concorso individuale – che le sembrava destinato ormai da anni – sotto il peso del caso scoppiato attorno alla sua positività.

Già, perché le Olimpiadi si disputano per le medaglie, ma si vivono (e si vincono o si perdono) con le emozioni.