Gli Azzurri di Mancini hanno trascorso un girone intero in attesa di Godot, la versione più bella di una squadra che è solo buona ma non straordinaria
Da campioni d’Europa alla mortificazione di un secondo posto in un girone con “solo” la Svizzera quale rivale con credenziali degne. La Svizzera che, stando al popolare telecronista Caressa, «mica avremo paura degli elvetici, dai», quando analizzava il sorteggio e un raggruppamento nel quale gli Azzurri già si consideravano primi per investitura. Scordandosi che, per quanto meritato possa essere il titolo europeo conquistato a Londra, ogni altro alloro va conquistato giocando in quanto, appunto, non assegnato a priori. Per non parlare poi della presunta superiorità, anch’essa sempre da dimostrare con i fatti – di rendita nello sport non si vive, semmai si stenta – che facilmente sfocia in presunzione. O superficialità nell’approccio al cimento successivo. “Tanto è la Svizzera. Tanto siamo campioni d’Europa”.
Forse non è il caso di parlare di psicodramma, in quanto è una bocciatura solo temporanea, con le prove d’appello in marzo grazie alle quali rientrare dalla porta di servizio, lasciata aperta alle sei nazioni più meritevoli. Di certo, però, è un bel colpo all’orgoglio per una squadra che ha raccolto consensi unanimi non più di quattro mesi fa e che adesso deve sfilare sotto il giogo delle critiche e dell’enfasi che simili controprestazioni scatenano nella terra delle iperboli, in tema di calcio.
Il ragionamento a caldo e le emozioni vive alimentano l’ansia da spareggio con annesse incognite. Fanno intravedere l’angosciante prospettiva di una seconda mancata qualificazione filata ai Mondiali di una Nazionale. La prima ebbe conseguenze devastanti per il suo artefice.
Tale Gian Piero Ventura da Genova, da ct esperto e un po’ saccente fu declassato a uomo indegno della cittadinanza italiana nonché incompetente tecnico dell’infamia e dell’onta, per aver interrotto una tradizione di partecipazione e di successi con l’ignominia del doppio spareggio contro la Svezia. Suddetta eventualità può davvero ripetersi? Soprattutto, di quale tenore sarebbero le critiche rivolte a Mancini nell’ipotesi che la sua Italia restasse fuori dal Qatar, né più né meno come quella del vituperato Ventura respinta dalla Russia? La dote del titolo europeo lo salverebbe dalla lapidazione sulla pubblica piazza del giornalismo sportivo, mai troppo tenero con chi offende la tradizione? È storia di poi…
Nel frattempo, consci che l’Italia - come sarebbe stato il caso per la Svizzera in caso di secondo posto - è solo rimandata e non bocciata, facendo astrazione dalle analisi pregne di toni esasperati, è forse il caso di ribadire un paio di concetti, peraltro condivisi dal vicedirettore della Gazzetta Andrea Di Caro. Con un equilibrio e una capacità di analisi che andrebbero presi ad esempio, ha sollevato alcune questioni delle quali al Bar Sport sotto casa, ebbri di successo prima, in preda allo sconforto oggi, si è faticato un po’ a tenere conto.
Punto primo, fondamentale per l’analisi che ne consegue e per ancorare per bene la questione alla realtà: l’Italia che ha vinto l’Europeo è una buona squadra, non una squadra straordinaria. Vanta uno o due calciatori di altissimo livello e tanti giocatori nella norma. Ha vinto con merito una competizione nella quale tante nazioni blasonate si sono presentate senza il vestito della festa. Ha brillato nella fase a gironi salvo poi tornare nei ranghi in quella a eliminazione diretta, pur restando degna del successo finale.
Che l’impianto di Mancini non sia privo di crepe lo dimostra il cammino nelle qualificazioni, stentato e sofferto, fino alla sua mesta conclusione di Belfast. A furia di aspettare che gli Azzurri tornassero a esprimersi sui livelli di alcune partite dell’Europeo, si è sottaciuto a lungo su limiti che sono invece propri a una selezione che il cambio di passo proprio non l’ha avuto. Il pareggio interno alla Bulgaria, lo 0-0 sofferto di Belfast e il duello di Roma contro la Svizzera denotano una fragilità che non è riconducibile alle assenze (si pensi a cosa la Svizzera ha saputo fare, ed era messa peggio da quel punto di vista), bensì alle carenze di una Nazionale alla quale è bastato fare un passo indietro sul piano dell’intensità, della determinazione e su quello scivoloso della presunzione e dell’autostima, per scoprirsi vulnerabile oltre che, perché no, perdente.
Del resto, proprio per sopperire alla non eccelsa cifra tecnica - se tiriamo in ballo la generazione del 1982 e quella del 2006 il paragone è imbarazzante - Mancini ha puntato forte su ritmo, spirito, gioco votato all’offensiva, personalità. Nonché sulla spensieratezza. Sul sorriso, come ha ricordato bene Di Caro. Il sorriso di una Nazionale allegra e anche un po’ sbarazzina, molto lontana dal cliché del calcio all’italiana, vincente in barba alla qualità non eccelsa dei suoi interpreti. Con particolare riferimento agli attaccanti, bravi quanto basta a farne dei campioni della serie A, ma in sofferenza sulla ribalta internazionale, dove ritmi e livello si alzano. Si è un tantino imborghesita, l’Italia tutto cuore e furore del titolo europeo, e non se lo può permettere, pena figuracce come quella di Belfast. O una campagna di qualificazione interamente passata ad attendere Godot. Attesa spasmodica chiusa nel peggiore dei modi. Forse, proprio la presa di coscienza dei limiti che i recenti fasti avevano mascherato molto bene è la chiave di volta in vista degli spareggi. Se l’Italia li prende di petto con l’umiltà che l’ha contraddistinta fino alle notti magiche di Londra, li supera e ritrova il sorriso. E allora sì che sarà autorizzata ad aspirare al titolo iridato. Se invece continua a specchiarsi in un titolo che deve a tanti fattori contingenti e non solo alla propria bravura, il rischio di un Ventura-bis con il “Mancio” dei miracoli diventa concreto.