laR+ IL COMMENTO

Putin-Erdogan: amici oggi, nemici domani (e viceversa)

L’ascesa turca e il riposizionamento russo in Caucaso e Medio Oriente potrebbero facilitare la fine della tragedia ucraina

In sintesi:
  • La nuova architettura post febbraio 2022, voluta dal Cremlino, sta crollando a pezzi
  • Quanto sta avvenendo in Siria mette in pericolo anche l’accordo Opec Plus
  • Inanellare una serie di débâcle del genere non era facile
(Keystone)
4 dicembre 2024
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Una delle regole fondamentali della geopolitica russa è sempre stata, storicamente, quella di non fidarsi dei turchi e dei cinesi. Invece Vladimir Putin l’ha messa da parte nella sua crociata senza quartiere contro l’Occidente. E adesso i nodi stanno arrivando al pettine. Cosa sta succedendo? La nuova architettura post febbraio 2022, voluta dal Cremlino, sta crollando a pezzi: Nagorno-Karabakh, Ucraina, Siria.

Primo. Nel settembre 2023 è stato irrimediabilmente perso il Nagorno-Karabakh, enclave armena nel turcofono Azerbaigian, in cui le truppe di interposizione federali erano state per un trentennio garanti di pace e di indipendenza. Oggi la fedele Armenia, sentitasi tradita, strizza l’occhio più ad americani e francesi che non ai russi tanto che si parla apertamente del tramonto dopo secoli dell’influenza – prima di San Pietroburgo, poi di Mosca – sul Caucaso meridionale. Le manifestazioni pro-Ue in Georgia di questi giorni ne sono un’ulteriore conferma.

Secondo. Dopo che la Turchia è diventata potenzialmente un hub (distributore) del gas russo sui mercati dell’Europa meridionale, il presidente Erdogan si è messo a vendere armi agli ucraini. Ma come fa il leader turco a proporsi ancora come mediatore, si è domandato – all’inizio del mese scorso in un’intervista – il ministro degli Esteri Lavrov.

Terzo. La frittata siriana. Da qualche giorno, infischiandosene delle intese in precedenza mediate dal Cremlino, le milizie filo-Ankara hanno attaccato, mettendo in fuga le truppe governative e iniziando una incredibile corsa verso Damasco. Persino le unità navali russe di stanza nel porto di Tartus hanno preso il mare in fretta e furia, mentre l’aviazione federale bombarda gli insorti. Lo stesso regime dell’alleato di ferro, Bashar al-Assad, vacilla paurosamente.

Inanellare una serie di débâcle del genere non era facile, ma non ne siamo sorpresi. Ricordiamo ancora, in una intervista rilasciataci nell’estate 2016, lo sguardo perplesso di Eduard Limonov, quando lo scrittore nazional-bolscevico invitava invano Putin ad agire contro i turchi. E a non stringere alleanze con loro. Oggi a Mosca, in ambienti non governativi, ci si interroga da dove arriverà la prossima “coltellata alla schiena”, utilizzando la stessa espressione usata da Putin ai tempi della crisi con Ankara (novembre 2015) per l’abbattimento del Mig federale da parte di un missile turco, prima del clamoroso rovesciamento delle alleanze e degli equilibri regionali, successivo al golpe del luglio 2016 contro Erdogan. Si sa, a certe latitudini gli amici di oggi sono i nemici di domani e viceversa.

I guai per Putin non sono, però, finiti qui. Quanto sta avvenendo in Siria – dove il Cremlino appoggia insieme all’Iran i locali sciiti – mette in pericolo anche l’accordo Opec Plus, mediato con gli arabi sunniti; accordo che mantiene il prezzo del petrolio alto e stabile a una quota necessaria per il budget russo, prosciugato dalle spese militari per finanziare le operazioni in Ucraina.

L’ascesa turca e il riposizionamento russo in Caucaso e Medio Oriente inducono a pensare che la stella di Erdogan sia in fase crescente e quella di Putin sia calante. Le menzionate débâcle, tralasciando quelle coi cinesi, potrebbero facilitare davvero la fine della tragedia ucraina.