Il tycoon deve aspettare il suo insediamento per tirare fuori la famosa ‘soluzione’ in 24 ore. Ma nel frattempo vi è il rischio di un’escalation
Siamo alle solite quando ci sono di mezzo Vladimir Putin e Donald Trump. I media americani sostengono che i due si siano già parlati, mentre il Cremlino nega: “Invenzioni giornalistiche”. Insomma, tornano in auge vecchie dinamiche. In passato il loro primo incontro ufficiale fu ritardato per l’inchiesta “Russiagate” negli Stati Uniti. Adesso lo scoglio è rappresentato dalla tragedia russo-ucraina. Ma, a differenza del novembre 2016 ora a Mosca non si è brindato alla vittoria dell’anti-sistema Trump. Come ha indicato Dmitrij Medvedev, “meglio non farsi illusioni”. La logica per l’ex presidente russo è elementare: Trump è un businessman; per lui tutto ha un prezzo. All’establishment Usa conviene “la guerra”. E se il “testardo” Trump – non contento dei costi del conflitto – si scontrerà con il “fortissimo establishment” il tycoon “farà la stessa fine di JFK” nel 1963. Strano: per mesi a Mosca è corsa voce tra i potenti che la partita ucraina si sarebbe chiusa col “ritorno” alla Casa Bianca del magnate. Di fatto – si diceva – Trump avrebbe tirato fuori dai guai Putin, che ha compiuto il terribile errore (geostrategico e militare) di iniziare la sua “Operazione speciale” il 24 febbraio 2022.
Nella primavera passata, quando si è scoperto dai sondaggi che – accostando Trump a Putin – il tycoon avrebbe rischiato di perdere le presidenziali, il Cremlino si è spinto a dichiarare che forse era “meglio” una riconferma di Biden, poiché ci sarebbe stata meno “imprevedibilità” nell’aria. Appunto imprevedibilità. Putin teme Trump. Nella primavera 2014 il leader russo ha iniziato a scrivere le prime pagine della tragedia ucraina, quando si accorse che i detestati democratici Usa avevano cincischiato a rispondere con le armi in Medio Oriente qualche mese prima, a una sfida a loro lanciata. Lo stesso è avvenuto sette anni dopo. Se non vi fosse stato il ritiro a rotta di collo degli Stati Uniti dall’Afghanistan, nell’agosto 2021, probabilmente la Russia non avrebbe mai sconfinato in Ucraina. Il Cremlino riteneva che gli occidentali non avrebbero difeso Kiev. Non è andata così.
Adesso viene il difficile: come uscire dal pantano ucraino? Trump deve aspettare il giorno del suo insediamento, il 20 gennaio, per tirare fuori dal cilindro la sua famosa “soluzione” del conflitto in 24 ore. Ma nel frattempo vi è il rischio di un’escalation. Le parti in causa accelereranno per acquisire le migliori posizioni negoziali possibili. L’Amministrazione democratica uscente, invece, potrebbe levarsi i classici sassolini dalle scarpe. Trump ha promesso di costringere Putin e Zelensky a negoziare. Sia Mosca sia Kiev hanno invero l’urgenza di terminare al più presto questa tragedia senza perderci la faccia. Ma come riuscirci? Difficilmente Washington cancellerà subito le pesanti sanzioni contro Mosca. È più probabile che, come già promesso in campagna elettorale, Trump faccia scendere il prezzo del petrolio a 50 dollari al barile, mettendo ulteriormente il Cremlino in crisi dal punto di vista finanziario. Zelensky, invece, resterebbe senza armi americane.
Ma se le trattative russo-ucraine non dovessero andare a buon fine? Tale scenario sarebbe un disastro: al potenziale pericolo di uno scontro Russia-Nato, si aggiungerebbero l’imprevedibilità e l’impulsività di Trump. Allora sì che ci sarebbe davvero poco da stare tranquilli.