Lo stato di decomposizione in cui verte il movimento di via Monte Boglia parrebbe indissociabile dalla degenerazione istituzionale generale del Cantone
Forse non è stato un caso che il primo cittadino del Cantone abbia scelto di includere nel suo sproloquio un cenno a Hegel, durante il ricevimento che il Festival di Locarno ha dedicato qualche giorno fa al Gran Consiglio. Il leghista Michele Guerra ha fatto riferimento alla dialettica hegeliana parlando di opposti che si uniscono, “e che generano sempre una sintesi”. A dire il vero la potenza del metodo hegeliano sta altrove: nell’idea della contrapposizione tra le coppie concettuali astratto-universale e concreto-particolare. Interazione dialettica che permette sì di arrivare a una sintesi, che le contiene entrambe.
Tutto questo filosofare per dire che le contraddizioni intrinseche alla Lega dei ticinesi, presenti sin dalla nascita del movimento di via Monte Boglia, e quelle che invece condizionano l’evoluzione del Canton Ticino, sembrano convergere. O meglio: lo stato di decomposizione in cui verte la Lega da qualche anno a questa parte parrebbe essere indissociabile, a rigor di analisi, dalla degenerazione istituzionale generale del nostro Cantone.
Un minimo di storia. Emerso come movimento anti-establishment, a immagine e somiglianza del suo fondatore, per denunciare e opporsi alle relazioni clientelari della partitocrazia, ma soltanto per rivendicare un posto a tavola per Giuliano Bignasca, la Lega diventa forza di governo nel 1995 e di maggioranza relativa dal 2011, con l’elezione di Norman Gobbi, il quale prenderà sin da subito in mano il Dipartimento istituzioni. Da lì in poi la Lega affronterà un processo di adattamento alla nuova situazione, a maggior ragione dopo la morte del suo presidente a vita (2013). Ma il movimento senza un leader carismatico nel quale rispecchiarsi annaspa. I magri risultati elettorali degli ultimi anni portano a identificare in Norman Gobbi l’uomo forte capace di assumere le redini del partito.
Il presente. Gobbi è oggi il coordinatore di una Lega che si ritrova con un sindaco e membro del Cda dell’Eoc sospeso perché indagato per presunte malversazioni in ambito privato; con una ex vice capogruppo costretta a fare un passo indietro qualche mese fa dopo il pasticcio delle nomine dei figli degli amici a procuratori pubblici. Gobbi è anche il ministro di Giustizia e polizia sotto il quale il Corpo ha demolito uno stabile a Lugano in maniera premeditata e in barba a qualsivoglia disposizione di legge; colui che ha consentito al suo delfino – il comandante Cocchi – di ritenersi al di sopra dell’istituzione per la quale lavora (il Ministero pubblico); Gobbi è pure finito al centro di un’inchiesta – che non gli imputa alcunché – che ha rinviato a processo due agenti per un presunto favoreggiamento nei confronti del loro capo politico; colui che in 12 anni di gestione non è riuscito a garantire alla Giustizia le risorse umane adeguate per adempiere al suo compito; Gobbi è infine il capo delle Istituzioni che assiste inerme all’ignobile spettacolo offerto dai giudici del Tribunale penale cantonale.
Ritenere il pietoso stato di salute in cui versano le istituzioni ticinesi una responsabilità (esclusiva) della Lega o di Norman Gobbi sarebbe semplicistico. La parabola leghista appare invece una manifestazione concreta di certe contraddizioni e tensioni generali presenti ovunque nel “sistema” Ticino: quelle di un territorio post-feudale, inteso come l’apoteosi delle promiscue relazioni clientelari che lo caratterizzano a tutti i livelli. Un modello in netto contrasto con l’ideale repubblicano liberal-democratico; un modello di cui la Lega risulta essere una fedele e mera espressione.