Dietro il calo dei donatori in Svizzera c’è anche una questione generazionale e un nuovo modo di fare beneficenza
Perché donare. Chi scegliere. Sono domande che ci attraversano la mente, soprattutto nel periodo natalizio, perché siamo tutti sollecitati – quasi simpaticamente sotto assedio – da associazioni che chiedono (ciascuna sicuramente a ragione) un sostegno. Gli svizzeri sono molto generosi, in media, il 70% della popolazione fa regolarmente donazioni. Lo dimostra anche la recente e importante colletta della Catena della solidarietà in favore dei bambini vittime di violenza in Svizzera e all’estero. In un solo giorno, anche grazie a una campagna mediatica SSR, sono stati raccolti 2,7 milioni di franchi (o perlomeno promesse di versamento). Una cifra che tante associazioni sognano e impone un rigoroso uso di tali preziose risorse.
Qualcosa però sta cambiando. La quota dei donatori, seppur ragguardevole in Svizzera, sta scendendo: era del 72% nel 2023, a fronte dell’84% nel 2022. Circa 400’000 persone avrebbero cambiato le loro abitudini nel fare beneficenza. L’importo totale delle donazioni è diminuito di 250 milioni di franchi in un anno. Lo segnalano i dati della Zewo, l’organizzazione che certifica gli operatori di pubblica utilità in Svizzera. Dietro questi numeri possiamo leggere la preoccupazione per l’aumento del costo della vita che può aver raffreddato qualche slancio di solidarietà. Inoltre passiamo da un’emergenza all’altra, da una guerra a una catastrofe. Un’accelerazione che può dare un senso di vertigine e impotenza paralizzante anche nel donare.
Oltre a ciò, gli esperti del Centro studi sulla filantropia dell’Università di Basilea suggeriscono un cambiamento strutturale: le nuove generazioni fanno beneficenza in modo diverso. Non si sentono ‘affettivamente’ legati a una particolare associazione. Piuttosto si focalizzano su tematiche come il cambiamento climatico o la giustizia sociale e premiano chi porta soluzioni realizzabili, senza sprecare risorse. Non si raggiungono con lettere o serate di gala. A tal riguardo, qualche associazione sarà tentata (ahimè!) a investire in costosi esperti di marketing per capire come coinvolgere le nuove generazioni. Sarebbe un autogol.
Infastidiscono anche le retribuzioni ai vertici delle organizzazioni caritatevoli. Tanto per fare un esempio, alla testa della Croce Rossa Svizzera si è guadagnato 262’000 franchi nel 2024. Un salario in linea col mercato per alcuni; un compenso troppo esoso per chi in questi ambiti si aspetta una spiccata motivazione al servizio più o meno disinteressata.
Il tema è anche questo. Mettersi al servizio. E dopo l’entusiasmo iniziale, saper portare avanti il progetto, malgrado gli ostacoli. Più dei soldi, penso sia il tempo offerto ai più fragili (anziani, malati, famiglie in difficoltà economiche, animali malati…) la più bella espressione di solidarietà che dà linfa e intesse relazioni autentiche. Aiutare fa bene, al nostro umore, alla nostra mente, a tutta la comunità. Qualche settimana fa, ho visitato un Ashram in India, dove 3mila persone (in maggioranza europei) fanno funzionare una comunità sulla base del volontariato. Ogni giorno preparano 10mila pasti, gratuiti per i poveri, per l’ospedale e l’università dell’Ashram. Ciascuno dà il suo contributo a un progetto di cui condivide la missione. Bambini francesi, inglesi, spagnoli, svizzeri crescono in India con un senso di servizio autentico, perché non legato a un tornaconto personale. Una routine del benessere.