Ora, con la mattanza di Gaza ancora in corso dopo nove mesi, si attende o si teme l’apertura vera del ‘secondo fronte’ al nord
Via dal Libano, “e con ogni mezzo”, intimano gli Stati Uniti, seguiti da diverse cancellerie occidentali, ai propri cittadini residenti nel Paese dei Cedri. Dando dunque per scontato che, fra rappresaglie e controffensive, sarà proprio il piccolo e fragile mosaico libanese lo scenario principale del prossimo massacro regionale. Terre e popolazioni abituate a subire le guerre degli altri, ma anche a organizzarne in proprio, come negli anni Settanta-Ottanta avvenne con il lungo scontro armato nazionale del ‘tutti contro tutti’, cristiani e musulmani e drusi e palestinesi, a volte lacerati al loro interno, autentica follia autodistruttiva: favorita dalle interessate intromissioni militari di siriani e israeliani, incendiari e registi di un’autentica carneficina (150’000 morti). Inizio della fine della “Svizzera del Medio Oriente”, come con faciloneria veniva definito il Libano prima della grande tragedia imposta anche dal cinismo dei suoi potenti vicini e dai santuari dell’Olp.
Ora, con la mattanza di Gaza ancora in corso dopo nove mesi, si attende o si teme l’apertura vera del “secondo fronte” al nord. Costretto dagli assassinii mirati di Israele (il più simbolicamente importante quello del capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, ma anche di capi del jihadismo libanese), l’Iran prepara la sua obbligata ritorsione, e lo Stato ebraico la sua ennesima replica. Escalation garantita. Che inevitabilmente passerà appunto dal Libano, prima roccaforte sciita con il ‘partito di Allah’, l’Hezbollah che dal 7 ottobre bombarda il Nord di Israele in sintonia e solidarietà con l’offensiva di Hamas al sud, e le puntuali rappresaglie dell’aviazione di Tsahal. Finora, guerra a bassa intensità. Contenuta, anche per interesse e intervento diplomatico americano e occidentale, ma immensa polveriera in grado di esplodere a ogni istante. Soprattutto se la Repubblica islamica (che ha fin qui dimostrato la sua debolezza militare) dovesse di nuovo esibirsi, e magari con maggiore successo, in un bombardamento a tappeto di droni e missili contro Israele come nella notte di metà aprile, aggiungendovi azioni sporadiche su bersagli israeliani all’estero, oppure dei suoi alleati regionali dell’“Asse della Resistenza” (dalla Siria, all’Iraq, allo Yemen degli Houthi).
Reazione bellica di cui gli eredi di Khomeini conoscono però la pericolosità. Possono infatti fornire al governo nazional-messianico di Netanyahu l’occasione-pretesto per colpire in profondità la teocrazia iraniana, e i suoi centri di ricerca per la costruzione dell’atomica: forma di guerra preventiva da tempo pianificata, e spesso rivendicata, dagli strateghi di Israele, che nella Repubblica della Rivoluzione islamica hanno il loro principale bersaglio, silenziosamente condiviso dai sunniti a guida saudita. Un’America con a capo un indebolito e “dimissionario” Joe Biden, e con la prospettiva di un ritorno di Trump alla Casa Bianca, farebbe stavolta molta più fatica a bloccare i piani dello Stato ebraico, anche perché gli alleati di Teheran, Russia e Cina, si limiterebbero a proteste verbali. Si aprirebbe comunque una voragine drammaticamente incerta in tutta l’area, un allarmante allargamento del conflitto (fin dove, fin quando?), nuove tragedie per i civili, con Israele forse costretto anche a intervenire sul terreno almeno nel Sud del Paese dei Cedri, dove da anni cerca di allontanare i miliziani di Hezbollah dai suoi confini, spingendoli al di là del fiume Litani. Ma anche Netanyahu sa che il Paese dei Cedri è stato la tomba del più alto numero di soldati israeliani, uccisi durante le invasioni del Libano. Intreccio di incognite e rischi ad altissima intensità.