Leggiamo le novità, grandi e piccole, della 77ª edizione del Locarno Film Festival presentata ieri alla luce delle parole della presidente Maja Hoffmann
Non bisogna avere paura di cambiare; al contrario quello che bisogna temere è il fossilizzarsi sulla tradizione, cosa che accade quando si resta troppo isolati dal mondo.
È quanto, conclusa la conferenza stampa di presentazione della 77ª edizione del Locarno Film Festival, ci ha raccontato la nuova presidente Maja Hoffmann, quando le abbiamo chiesto quale sia, secondo lei, il rischio principale per il Festival. Risposta forse un po’ di maniera, soprattutto se si tiene conto che nel più classico dei “ma anche” Hoffmann aveva appena indicato come punto di forza del Festival di Locarno la sua capacità di restare fedele a sé stesso e al suo spirito. Proviamo tuttavia a prendere sul serio quelle parole e a usarle come lente per guardare il programma di quest’anno, presentato appunto ieri prima a Zurigo, alla Luma Foundation creata dalla stessa Hoffmann, e poi a Bellinzona.
Quella che si aprirà il prossimo 7 agosto sarà un’edizione che presenta un certo numero di cambiamenti grandi e piccoli, da un manifesto sul quale si è forse parlato fin troppo a una nuova presentatrice di Piazza Grande. Ma di cambiamenti grandi e piccoli ce ne sono sempre stati, nella lunga storia di questa manifestazione che ha sempre dovuto – e saputo – reinventarsi.
È difficile, oggi, leggere in questi piccoli mutamenti qualcosa di epocale. Ma si sa, solo nelle banalizzazioni storiografiche le rivoluzioni avvengono da un giorno all’altro e i passaggi da un periodo storico all’altro hanno una data precisa e inequivocabile: sono processi lenti e spesso nascosti, ma non per questo meno importanti e, una volta venuti alla luce, dirompenti. E a far pensare che le piccole novità di questa 77ª edizione – alle quali, ne siamo certi, si aggiungeranno quelle della 78ª, della 79ª e così via – segnino uno di questi passaggi c’è ovviamente il grande cambiamento nella presidenza del Festival, con la conclusione dopo oltre vent’anni della guida di Marco Solari.
Un cambiamento che, come tutti i cambiamenti, va innanzitutto compreso – per valutarlo obiettivamente e criticarlo nel merito, evitando appunto di fossilizzarsi sulla tradizione. Comprendere questo cambiamento vuol dire evitare di considerare Maja Hoffmann la semplice succeditrice di Marco Solari: anche se il titolo, “presidente”, è quello, il ruolo è diverso – se proprio dobbiamo indicare un successore di Solari, dobbiamo piuttosto guardare al Consiglio d’amministrazione del Festival che nei prossimi mesi dovrebbe arrivare al suo assetto definitivo.
Maja Hoffmann ne è pienamente consapevole, di non essere Marco Solari; non solo per un diverso stile nella gestione manageriale – e che sta portando a una riorganizzazione interna di cui probabilmente vedremo gli effetti nei prossimi anni – ma, appunto, per il suo ruolo, per quello che può dare al Festival e per quello che all’interno del Festival ci si aspetta da lei. All’esterno quella consapevolezza non è forse ancora arrivata; questa edizione potrebbe essere l’occasione buona per rendersi conto che, appunto, il Festival non può aver paura di cambiare, e non si tratta solo di modificare la saturazione del “giallo pardo”.
Con un classico riferimento letterario-cinematografico, in questi casi spesso di dice “cambiare tutto per non cambiare niente”. Ma forse qui è il contrario, cambiare apparentemente poche cose affinché ci si renda conta che tutto cambia in profondità.