L'Udc raddoppia al Nazionale e la Lega fa buon viso a cattivissimo gioco. L'aritmetica condanna il Centro. E il Plr paga il fuoco amico
Si scrive Lega, ma si legge – in maniera sempre più nitida – Udc. Il movimento di via Monte Boglia arretra ancora in termini di voti, un’erosione di consensi che le elezioni cantonali di aprile e, solo pochi mesi dopo, quelle federali hanno confermato. Non perde il seggio al Nazionale, riagguantato dall’uscente Lorenzo Quadri, tuttavia non riconquista la seconda poltrona saltata quattro anni fa con la mancata rielezione di Roberta Pantani. L’hanno occupata i democentristi. Certo, quel seggio resta nell’area politica condivisa dalle due forze che anche a questa tornata elettorale si sono presentate con le liste congiunte. Ma che sia passato ai cosiddetti cugini, è una magra consolazione per i leghisti, che avevano ben altre ambizioni. Fatto sta che il raddoppio Udc alla Camera del popolo segna un ulteriore passo verso quell’operazione temuta soprattutto dai fedelissimi dei fratelli Giuliano e Attilio Bignasca: la Lega dei Ticinesi ingurgitata dal partito di Marco Chiesa e Piero Marchesi, in progressiva crescita anche in Ticino. I rapporti di forza stanno cambiando rapidamente e, con quest'ultimo sorpasso, a evidente vantaggio dei democentristi. L'operazione di cui sopra potrebbe concretizzarsi quanto prima.
Del resto su alcuni temi, come quello, caldo, della migrazione, la Lega non ha più il monopolio. Stesso discorso per quel che riguarda le casse cantonali: il rigore finanziario, tradottosi nella contestata manovra di risparmi/tagli, è ancorato a un decreto che porta il nome del capogruppo dei democentristi in Gran Consiglio, Sergio Morisoli. L’altrettanto discutibile risanamento della cassa pensioni degli statali, ricorrendo ai mercati finanziari, è per gran parte frutto delle pensate oxfordiane di Paolo Pamini, altro esponente dell’Udc. Soprattutto, i democentristi hanno una leadership riconoscibile e riconosciuta dai propri elettori. Dalla base. Quella in casa leghista dov’è? Ce lo chiedevamo dopo il nuovo tonfo del movimento alle ‘cantonali’ 2023 (quattro poltrone in meno in parlamento: in tutto otto se si considerano le quattro dissoltesi nel 2015). E ce lo chiediamo alla luce del risultato di queste ‘federali’. Ieri mattina girava una mail: “Mobilitiamoci in massa, è l’ultima chiamata! Lista 12 della Lega dei Ticinesi”. Una volta erano i leader a mobilitare, riuscendovi.
A uscire azzoppato da questa domenica è anche il Centro, che dopo aver retto l’urto tutto il pomeriggio con i risultati di Mendrisio e Lugano ha ceduto uno dei due seggi occupati al Nazionale. L’aritmetica a volte è crudele, soprattutto quando un partito mostra una perdita contenuta, parliamo dello 0,4%, e a rimanere fuori per ora è il terzo candidato più votato in assoluto, Giorgio Fonio. Il ripresentarsi con un solo uscente, dopo la rinuncia a candidarsi per un altro mandato da parte di Marco Romano, è un alibi che regge fino a un certo punto. Anche il Plr si è ritrovato nella stessa condizione, con il ‘nein’ di Rocco Cattaneo, ma la risposta delle urne è stato un +1% e una comoda, comodissima conferma dei due seggi al Nazionale.
Il partito di Fiorenzo Dadò ha giocato la carta di puntare su un nome fortissimo in accompagnamento all’uscente Fabio Regazzi – appunto, Fonio – e sei portatori d’acqua noti, che hanno fatto un buon numero di voti, ma che non hanno mai impensierito la seconda posizione del granconsigliere e sindacalista Ocst. I liberali radicali di Alessandro Speziali invece, scottati dall’esperienza delle recenti ‘cantonali’ – dove la lista per il Consiglio di Stato ha sfornato granconsiglieri di peso, ma era tutto tranne che forte per un’elezione in governo – hanno deciso di puntare sui grandi nomi. Per farlo, si sono scelte ben quattro persone del Luganese, tutte agguerrite, tutte col coltello tra i denti e con i rispettivi clan pronti a dare il via al festival delle rigature sui concorrenti. Ecco spiegato come dopo la buona votazione nella corsa per il governo, e nonostante tutta la visibilità che il suo ruolo le offre, la capogruppo in Gran Consiglio Alessandra Gianella – grande favorita alla vigilia – ha (per adesso) ceduto il passo arrivando terza, staccando nettamente Natalia Ferrara e seminando Giovanna Viscardi e Paolo Morel. Ma più della competenza e dell’appoggio presidenziale, poté il fuoco amico.
Ciò detto, l’elezione a Berna del vicesindaco di Bellinzona Simone Gianini trova un senso che va al di là dei distretti, del suo dominare nel Sopraceneri mentre nel Sottoceneri partivano le coltellate alla schiena o a chissà quale macumba. Gianini ha costruito il proprio consenso parlando di temi federali e non è un nome assimilabile alla politica cantonale ormai sempre più lontana dagli interessi e dalla passione della popolazione. Al volto di Gianini non si associano riforme fiscali, sussidi di cassa malati, Decreto Morisoli o vicinanza a questo o quel centro di potere. Semmai, in queste settimane, ha mostrato di padroneggiare alla perfezione il tema della mobilità – allacciamento A2/A13 e prolungamento di Alptransit su tutti –, così come una risposta liberale a un problema, la crisi climatica, cui il popolo ha tolto l’esclusiva ai Verdi.
La terza posizione di Alex Farinelli nella corsa agli Stati quando se non tutti almeno molti lo vedevano almeno nei primi due posti mostra, semmai, la fatica che fa ancora il Plr a parlare ad ambienti che non siano il proprio. Se fa questa fatica con il politico più trasversale di cui dispone, il campanello d’allarme che deve suonare in casa liberale radicale è che non è più tempo di torri d’avorio e distinguo col ditino alzato, ma di riscoprire il fatto che il liberalismo è anche e soprattutto movimento, non rendita di posizione. E che c’è ancora spazio per le proprie idee, anche al ballottaggio per gli Stati. Sempre che le coltellate alle spalle siano finite.