Il Rapporto nazionale e le diverse Diocesi portano a riflettere sul ruolo di chi era in dovere di sapere e di conoscere
Quel silenzio assordante evocato da monsignor Alain de Raemy, amministratore apostolico della Diocesi di Lugano, purtroppo resta e pare ben lungi dall’essere colmato da scuse cristalline o da trasparenti passi indietro. Un silenzio – diversamente da quello che, in parte, si vuol far credere – reso ancor più fastidioso da Sorella Morte che, portando con sé quattro dei cinque abusatori coinvolti nei più recenti casi ticinesi affrontati dalla Commissione diocesana di esperti per la gestione di casi di abusi sessuali in ambito ecclesiale, ha chiaramente azzerato la possibilità di un vero risarcimento, che non può essere paragonato neppure a tutto l’oro che orna chiese e oratori, ma quello, diversamente, di vedere in prigione gli autori di tali spregevoli atti.
Per questo stridono lo spavento e lo sconcerto con cui la Curia ticinese ha accolto i risultati del Rapporto sul progetto pilota per la storia degli abusi sessuali nel contesto della Chiesa cattolica romana in Svizzera a partire dalla metà del XX secolo. Stati Uniti, Francia e Germania ce ne avevano, infatti, già dato prova fin dalla metà degli anni Ottanta. Questi abusi erano una realtà, neppure troppo emarginata, all’interno del clero, in tutto il mondo. Dunque la Svizzera, c’era da aspettarselo, non lo era di meno, Ticino a seguire.
Per questo ci pare quantomeno incomprensibile l’accostamento del “silenzio assordante” alle “tante vittime che non hanno potuto parlare”. La storia e il presente ci dimostrano, invece, che le vittime hanno sempre parlato. Con il compagno di catechismo, con l’amica del cuore, persino con un parente. Tanto che in parrocchia o nell’ambito della comunità le voci circolavano. Il silenzio, ed è stato dimostrato anche dallo studio, è allora un altro: quello di quanti all’apice di una Diocesi avrebbero dovuto percepire i segnali e i richiami di aiuto.
I mille e oltre casi fatti emergere non sono, quindi, che la punta di un iceberg. “Documentati e ripetuti comportamenti illeciti, verso i quali la gerarchia ecclesiastica deve rispondere” ha annotato de Raemy. Non ci piove. Così, raccogliamo con soddisfazione le dimissioni dell'abate di St. Maurice, indagato dal Vaticano per presunti abusi, e il preannunciato ritiro del vescovo di Sion qualora un’indagine in corso metterà in luce sue responsabilità.
Perché quindi stracciarsi le vesti se si alza l’invito rivolto a monsignor de Raemy di ‘indossare’ lo stesso atteggiamento di fronte all’inchiesta vallesana che lo coinvolge? “Mi bruciano le labbra, ma non posso parlare...”, è stata la sua risposta. Ebbene, quella non risposta è nuovamente e ancora (purtroppo) silenzio, di certo meno assordante, meno doloroso, meno devastante di quello patito da mille e oltre (chissà davvero quante negli anni) vittime che ancora oggi non trovano e non potranno mai trovar pace.
In quel camper o in quel cimitero, in quella sacrestia o ai margini di una lezione di religione, quelle viscide mani e quel corpo ingombrante e sudicio ha sì trasformato il pastore in predatore, ma ha anche permesso che il grido ‘al lupo, al lupo’ non fosse raccolto, anzi spesso celato, sminuito, isolato, ulteriormente ferito, persino distrutto. È proprio questa la colpa di quel maledetto silenzio.