Scioperi, inflazione e crisi economica azzoppano un Paese che dopo la Brexit è arrivato quasi allo sfascio. I Conservatori si confermano debolissimi
Profetizzava Farouk, ultimo monarca egiziano, che al mondo sarebbero rimasti solo cinque re: "Quelli del mazzo di carte e quello inglese". Cosa rimane d’altro della Gran Bretagna di un tempo, soprattutto in politica? Poco o nulla. Non l’aplomb gelido ma garbato, visto che lo spettacolo offerto negli ultimi anni è stato di sguaiate polemiche. Non la stabilità garantita dall’alternanza fra Labour e Tory, come certifica il rapido rosario di crisi governative succedutesi negli ultimi cinque anni (‘Welcome to Britaly’, titolò l’Economist con riferimento all’italico disordine istituzionale). E ora nemmeno la ‘pace sociale’, per decenni imposta dalla sconfitta dei sindacati dopo il durissimo scontro degli anni Settanta con Margaret Thatcher, che aveva ingiunto una serie di forti restrizioni all’attività delle Trade Unions. Ecco infatti che oggi, quarant’anni dopo, il Regno Unito conosce la più massiccia protesta sociale dai tempi della ‘Lady di ferro’: con oltre un milione di lavoratori in sciopero da qui a fine anno, e forse oltre.
A incrociare le braccia anche il personale di un altro settore-mito della storia britannica, quello medico-sanitario, il National Health Service, pubblico e gratuito, a lungo indicato come un invidiabile modello, ma sempre più trascurato e ormai arrivato ai bordi dello sfascio. E poi – solo nel servizio pubblico – insegnanti, ferrovieri, postini, addetti ai bagagli, infermieri (in diecimila hanno sottoscritto l’appello del loro sindacato, ed è la prima volta nei suoi cento anni di storia). Due dati possono riassumere la sostanza della rabbia dei sudditi di ‘Sua Maestà’: il "Trade Union Congress" ha calcolato che in una ventina d’anni i salari di queste categorie di lavoratori hanno perso in valore reale una media di 20mila sterline (oltre 23mila franchi svizzeri), mentre il Nasuwt, rappresentante dei docenti, denuncia che oltre il 70 per cento dei suoi iscritti ha ridotto le spese per l’alimentazione. La fiammata inflazionistica (quasi il 12 per cento in novembre) ha allargato ulteriormente la forbice tra costo della vita e salari, mentre la sterlina perde valore e il Regno Unito risulta ora il Paese dell’Europa occidentale con le maggiori disuguaglianze sociali.
Il giovane neo-premier Rishi Sunak replica con continui rifiuti, pugno duro e stile… thatcheriano, minacciando il ricorso all’esercito per garantire i servizi essenziali. Ma si tratta di una tattica a rischio esplosione. La situazione è profondamente diversa dagli anni della inflessibile e iperliberista Lady di ferro. Dopo sbandate e scandali, il partito conservatore è molto debole; la Banca nazionale ammonisce che il Paese si avvia alla recessione; tre milioni di britannici fanno fatica a pagare le bollette dell’energia elettrica; e all’economia nazionale servirebbero oltre duecentomila lavoratori stranieri, allontanati in seguito alla Brexit. Uno strappo dall’Europa che – dopo le reboanti promesse di rilancio economico nonché di fantasiosi benefici dell’ancoraggio alla cosiddetta ‘anglosfera’ con Usa, Canada, Australia, Nuova Zelanda – sta imponendo una fattura salatissima, con le importazioni in calo e più costose. Si chiama fallimento. E infatti tacciono euro-fobici e populisti che esultarono per il voto di sei anni fa. Anche dalle nostre parti.