Commento

La pace, i partigiani, la resistenza

Lo spettacolo poco edificante che offre l’Anpi in Italia evidenzia l’impasse nel quale si trova il pacifismo di fronte alla guerra in Ucraina

Una guerra, tanti pacifismi
(Keystone)

Mai in passato le celebrazioni del 25 aprile avevano suscitato tanto dibattito. Mai come oggi il pacifismo si era trovato in una tale impasse. I preparativi della festa della liberazione dal nazifascismo in Italia si sono trasformati in una desolante landa di battaglie ideologiche, uno shakeraggio di rimproveri di accuse e di astio.

Demerito in primis di Gianfranco Pagliarulo, presidente dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia (Anpi), una sorta di Peppone in versione bonsai, che del celebre personaggio di Guareschi non ha tuttavia né l’umanità né la simpatia. Solo l’ostinata ammirativa cecità nei confronti di Mosca. Così di fronte alla mattanza di Bucha, lui si interroga su "chi sono i mandanti" e "su cosa è veramente successo" ("ma forse a pensarci bene"– ironizza un commentatore – "anche Gesù Cristo potrebbe esser morto di freddo"), mentre sull’Ucraina non manca di esternare certezze: "Uno sciagurato Paese, uno scempio di democrazia, libertà, diritti umani". Il cossuttiano di ferro respinge categoricamente il paragone tra i "nazistoidi di Kiev" e i partigiani italiani. Ma le sue spiegazioni sono incoerenti e farfugliate. Aspettando l’alba del sole dell’avvenire, si proclama pacifista: nel manifesto del 25 aprile, tiene buona solo la prima parte dell’articolo XI della Costituzione ("L’Italia ripudia la guerra") omettendo il seguito ("come strumento di offesa alla libertà di altri popoli").

Al di là dello spettacolo poco edificante che offre l’Anpi (tra le battaglie in corso vi è anche quella campale sul "dress code" antifascista: quali bandiere, striscioni ecc…), il dibattito sulla pace solleva questioni di fondo che traducono un vero tragico dilemma della nostra epoca. Vi è un pacifismo fondamentalista (quello tradizionale manifestato dal Papa) che non fornisce tuttavia risposte agli aggrediti, ve ne è uno opportunistico portato avanti dai travet del cerchiobottismo ("né con gli uni né con gli altri"), uno imbarazzato che si schermisce dando la parola all’oltretomba (copia-incolla di spezzoni di Gino Strada o altri, manco fossero sui santini di Padre Pio), vi è quello a geometria variabile per il quale la resistenza armata, sì va bene ma solo se condotta dal Che o dai Vietcong, vi è quello un po’ meschino ("fate la pace così possiamo andare di nuovo serenamente in vacanza").

Ci sono poi soprattutto i pacifisti (così furono i partigiani antifascisti) per i quali la pace è un obiettivo da raggiungere anche, se necessario, con il ricorso alle armi. Il nostro pensiero funzionale e razionalista – scrive Vito Mancuso – è portato a considerare l’esistente come un problema che ha sempre una soluzione più o meno semplice. Ma così non è e il celebre teologo ci ricorda la scomoda verità: con la pace a qualsiasi condizione, libertà e diritti non si sarebbero mai affermati nella Storia. È che di fronte al pericolo di tracimazione nucleare e a una diplomazia latitante o bellicistica (si possono legittimamente nutrire dei dubbi sulla strategia americana del muro contro muro) tutto diventa maledettamente ancora più complesso: le scorciatoie mentali, le soluzioni a portata di mano svaniscono. Rimane tuttavia per la martoriata Ucraina una certezza: se gli invasori fanno tacere le armi, finisce la guerra. Se Kiev non può difendersi con le armi, finisce l’Ucraina.

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