I licenziamenti presso Dpd dimostrano ancora una volta l’avanzata di un sistema irresponsabile, fomentato dalle voci bianche della deregulation
“Lo sai che ti amo, baby! Non ti ho tradito! Ero… rimasto senza benzina. Avevo una gomma a terra. Non avevo i soldi per prendere il taxi. La tintoria non mi aveva portato il tight. C’era il funerale di mia madre. Era crollata la casa. C’è stato un terremoto. Una tremenda inondazione. Le cavallette. Non è stata colpa mia!”. Ogni volta che sento le giustificazioni alle pratiche di sfruttamento e intimidazione di certi padronazzi mi viene in mente questa scena dei ‘Blues Brothers’, con quel simpatico cialtrone di John Belushi che cerca di calmare la fidanzata dopo averla abbandonata all’altare.
Nel film, però, il fedifrago è in ginocchio nella melma e la ragazza è armata di mitra. Invece nel mondo dei lavoretti, della ‘flessibilità’ e dei turni da 14 ore il ruolo è invertito. Le scuse sono comunque altrettanto improbabili, come vediamo con gli ultimi licenziamenti di autisti Dpd: un ‘partner commerciale’ del colosso delle consegne ne ha lasciati a casa quattro, tutti guarda caso coinvolti nelle rivendicazioni sindacali senza le quali ignoreremmo condizioni massacranti, straordinari non retribuiti, paghe da fame. Non è la prima volta che i media parlano di questi abusi, ma ogni volta Dpd risponde con lo stesso ritornello: noi firmiamo solo contratti coi nostri partner, la gestione dei lavoratori sta a loro, non prendetevela con noi. In quest’ultima messinscena, poi, si arriva all’apoteosi del gesuitismo: siccome la società partner è stata sciolta e ne è stata costituita una nuova nel giro di tre giorni – quella che ha riassunto la restante ventina di fattorini – non si può davvero parlare di licenziamenti, tantomeno antisindacali (“Lo sai che ti amo, baby!”).
È un trucco che si ripete sempre più spesso, quello del subappalto creativo: un esempio internazionale è quello di Uber, la grande società di taxi che si rifiuta di considerare gli autisti suoi dipendenti. In entrambi i casi, si tratta di escamotage: il sistema è controllato dalla casa madre in ogni più piccolo spostamento, transazione, turno. I partner non potrebbero esistere senza l’incarico del colosso di riferimento. Ma visto che i lavoratori firmano il loro contratto con qualcun altro, se succede qualcosa di brutto si ha sempre un pretesto per dire che “io non c’entro niente, passavo di lì per caso”. È il capitalismo accidentale, ultima incarnazione del vecchio mantra che suggerisce di privatizzare i profitti e socializzare le perdite.
Ora: non si tratta di demonizzare il mercato tout court, anche perché di soluzioni più efficaci dobbiamo ancora vederne. Ma è chiaro che il sistema funziona solo se ognuno si prende le sue responsabilità. In questo senso, la deregulation non ha certamente aiutato: non bastano la competizione e la mano invisibile a bacchettare gli irresponsabili e sollevare i migliori. Eppure l’illusione thatcheriana – un misto di formulette economiche senza fondamento e moralismo da due penny – continua a tener banco, con un mondo politico e d’impresa che gioca a confondere pionieri e corsari, un vaudeville in cui ogni richiesta di avere armi più efficaci contro gli abusi è liquidata dal solito coretto di voci bianche come ‘troppo radicale’. Poi ci si ritrova con gli autisti che devono pisciare nelle bottiglie senza potersi fermare, o coi fattorini che ci portano i pasti a cottimo. Intanto restiamo tutti aggrappati all’illusione che a noi non capiterà mai, che questi sono ‘casi isolati’ e non eroderanno invece i diritti di tutti. Cavallette permettendo.