Gli inquirenti hanno escluso reati durante la demolizione dell’ex Macello. Eppure le loro indagini confermano un quadro desolante.
Il regalo più popolare del Natale ticinese rischia di diventare ‘Il poliziotto pasticcione’: un avventuroso gioco dell’oca attorno al Cassarate, tra pedine distratte e telefonate senza fili, ravvivato da carte-imprevisto del tipo “ti dicono tetto, capisci tutto: tira giù un centro sociale”. Come funziona ce lo conferma il decreto d’abbandono per la demolizione dell’ex Macello: pianificate con largo anticipo uno sgombero nel bel mezzo di una manifestazione, casomai degenerasse (cosa potrebbe mai andare storto?); eseguitelo nottetempo; accorgetevi che a quel punto occorre tenere le posizioni; decidete di farlo demolendo una parte dell’edificio. Alla fine un giocatore un po’ sordo abbatte tutto, ma nessuno si prende la responsabilità. L’opposto del Monopoly, insomma.
Per la Procura quel domino di “improvvisazione comunicativa” non ha rilevanza penale: l’esecutivo comunale ha agito secondo le regole, quello cantonale non entra neanche in linea di conto, la polizia ha fatto tutto in buona fede. Peccato solo per “quel claudicante passaggio di informazioni fra il Capo Impiego del Servizio di mantenimento dell’ordine, dapprima, e un Ufficiale dello Stato Maggiore, poi, operanti da Bellinzona, e chi, sul terreno a Lugano, era addetto a dirigere l’esecuzione degli ordini”. Sì, ma.
Ma il comunicato degli inquirenti ribadisce – tra le spire dei suoi arabeschi espositivi – uno scoppiettante esempio di ottusità organizzata: politici che non colgono le conseguenze di giocare a Risiko coi piani di sgombero, una loro applicazione amatoriale. Vale per il Municipio di Lugano, ma anche per il governo cantonale (sempre che non abbia davvero consegnato i suoi agenti alla città chiavi in mano, “lasciamele in bucalettere quando hai finito”). Un quadro tristanzuolo anche a voler riconoscere lo “stato di necessità esimente”, per cui si sarebbe proceduto di fronte a “un pericolo imminente e non altrimenti evitabile” allo scopo di “preservare l’incolumità fisica dei manifestanti”. Poi certo, si potrebbe obiettare che la città non era in fiamme, che lo spostamento simbolico all’ex Vanoni era una “degenerazione” piuttosto contenuta, che prevedere uno sgombero durante una manifestazione non era esattamente inevitabile né geniale, perfino che la “necessità esimente” presuppone un reato (sennò da cosa esime?). Ma un aspetto è chiaro: per la Procura non si tratta di osservazioni rilevanti a livello giuridico.
Concluso l’iter di un’inchiesta destinata da tempo a morte certa – e in attesa di quella amministrativa ed eventuali ricorsi – il pedone può tornare alla casella di partenza: la politica. Anzi, forse era fermo lì da diversi giri, da quando a qualsiasi domanda si è iniziato a rispondere che “c’è un’inchiesta in corso, non possiamo parlare”. Bene, ora qualcuno potrà farlo. Gli interrogativi rimangono aperti, come il buco lasciato dalle macerie: cosa ha spinto il Municipio a scegliere quel picaresco modus operandi? In che modo è stato coinvolto il Consiglio di Stato, in particolare il Dipartimento delle istituzioni? Perché mai si è pensato che fosse una buona idea scatenare le ruspe per un semplice tetto? Come mai la polizia è incappata in errori così grossolani? In altre parole: dov’è arrivata l’arroganza e dove l’incompetenza? Oppure siamo noi che ‘rosichiamo’, e davvero nasce tutto da un fortuito lancio di dadi. Che brutto Monopoly, però.