Alex Pedrazzini ha dato il meglio di sé come consigliere di Stato, alla testa del Dipartimento delle Istituzioni
L’ultima volta che ho incontrato Alex Pedrazzini era poco prima di un Natale di pochi anni fa, quando la nostra vita ancora non era stata sconvolta dalla pandemia. Con la sua figura imponente se ne stava, avvolto da un mantello e con una lobbia che gli copriva la testa riccioluta, a presidiare una bancarella all’imbocco di via Nassa, a Lugano. Era una bancarella in cui si potevano acquistare oggettini che servivano a finanziare la fondazione Arcobaleno, che si occupa di adozioni a distanza. Con il suo fare schietto, accompagnato da una di quelle considerazioni scherzose che nel suo argomentare non mancavano mai, mi convinse ad acquistare un enorme guanto per proteggermi dal freddo, le cui dimensioni sarebbero andate bene a uno yeti. Alex Pedrazzini, che riusciva a ironizzare pure sul nomignolo di Mammaloturk, affibbiatogli da Giuliano Bignasca, è stato sicuramente uno degli ultimi politici di talento, meglio uno degli ultimi tenori, che abbiano occupato uno scranno del Gran Consiglio.
Il meglio di sé l’aveva comunque dato come Consigliere di Stato, alla testa del Dipartimento delle Istituzioni, approdatovi portandosi dietro le esperienze della direzione di due penitenziari, prima La Stampa poi Champ Dollon. Lo chiamavano “Il monello”, per certe sue prese di posizione poco convenzionali, rispetto a una politica che ancora era ingessata, nonostante sulla scena avesse già fatto irruzione la Lega dei Ticinesi. Fu Fulvio Pelli a coniare quel soprannome, spiegò Alex Pedrazzini. “Perché – disse – considerava che certe mie scelte fossero dettate più che da ponderata valutazione di tutti gli elementi in campo da voglia di sorprendere”. In realtà, in quegli anni turbolenti in cui fu Consigliere di Stato, insieme all’allora comandante della Polizia cantonale, Mauro Dell’Ambrogio, costituì un binomio all’insegna dell’ordine e della sicurezza con pochi eguali nella storia recente del Canton Ticino. Nell’estate del ’92, insediato da poco più di un anno, gli toccò la replica della “Carovana della libertà” leghista, che con Dell’Ambrogio affrontò con uno spiegamento di uomini e mezzi imponente. Lo capirono anche Bignasca e Maspoli i quali, dopo annunci tonitruanti, ripiegarono sull’occupazione della Swissminiatur. L’anno prima, invece, l’autostrada l’avevano occupata davvero ma Alex Pedrazzini non aveva ancora preso del tutto le misure dell’imprevedibilità degli uomini della Lega. Nell’ottobre dello stesso anno ci fu il tentativo di evasione dalla Stampa, finito nel sangue, con l’uccisione di due detenuti. Mi ricordo di una lunga intervista, che feci ad Alex Pedrazzini, nel suo studio di Consigliere di Stato, a Bellinzona, all’indomani di quel sanguinoso episodio, e mi ricordo pure la schiettezza con cui rispose a tutte le domande che gli posi. Non era, insomma, uno di quei politici un po’ scivolosi, sperimentati nel saper riempire del nulla microfoni e taccuini. Alex Pedrazzini, forse anche per questo, non senza una certa invidia, da parte dei suoi colleghi passava per un “monello”: ebbe un grande potere, affrontò momenti e temi delicatissimi, ma non fu mai un uomo di potere. Soprattutto ebbe, sempre, il coraggio delle proprie azioni.