I diritti riconosciuti alle famiglie Lgbtq+ riflettono una società che cambia sul piano dei diritti civili. Quanto a quelli sociali, mica tanto
Cinquant’anni fa, quando Charles Aznavour trovò il coraggio per cantare la struggente ‘Comme ils disent’, l’omosessualità era ancora ridotta a una caricatura volgare e sculettante: “Je suis un homme, oh!”, gridava il protagonista confinato tra la penombra della casa di mamma e quella d’un night club, rivendicando i suoi diritti con questa disperata omofonia. Nei tardi anni Novanta, tra liceali che si credevano illuminati e perfino alle fumose riunioni di parecchia sinistra, bastava apparire un po’ effeminati per essere oggetto di risolini ed epiteti irripetibili. Ancora nel 2005, quando in Svizzera si votò per le unioni domestiche registrate, il Ticino si disse contrario. Oggi, invece, è una mappa tutta verde quella che saluta il sì al matrimonio per tutti: segno che le cose sono cambiate alquanto rapidamente, almeno a guardarle dalla prospettiva lunga della storia. È bastato un paio di generazioni per smantellare le armature di genere e ripensare non solo il modo di concepire la coppia, ma anche l’idea che ci siamo fatti di famiglia.
Certo, quest’ultimo aspetto spaventa ancora una parte significativa degli svizzeri, soprattutto dei ticinesi: da noi il ‘no’ alle urne è arrivato al 47%, dieci punti sopra il dato nazionale. A preoccupare è l’accesso alla donazione del seme e, più in generale, l’idea che un bambino cresca con genitori dello stesso sesso. Timori comprensibili, se si considerano la rapidità del cambio di paradigma e la scarsa familiarità di tanti con la genitorialità omosessuale. Ma in Svizzera già 30mila bimbi hanno due papà o due mamme. La nuova legge serve anzitutto a proteggerli. Nel frattempo, quella mappa verde allontana ulteriormente la società da vecchie ubbie e pesanti discriminazioni. Epperò.
Però una cosa salta all’occhio: il fronte progressista vince solo quando si tratta di diritti civili. Per carità, è assai consolante vivere in una società dove “finocchio” e “negro” sono parole bandite non solo dal linguaggio pubblico, ma anche dalla cultura condivisa. Eppure analoghi balzi in avanti non si registrano da decenni sul fronte del lavoro, della socialità e della difesa dei ceti più fragili. Il riferimento non è solo alla bocciatura dell’iniziativa 99%, tutto sommato vaga e marginale, che il collega Stefano Guerra ha giustamente definito “solo un correttivo” alle disuguaglianze in crescita. Se guardiamo al ruolino delle ultime votazioni troviamo un riformismo sempre più afono nel difendere i diritti sociali, mentre la mitologica ‘classe operaia’ – o quel che ne è seguito – vota e decide guardando da tutt’altra parte. È quel ‘clivage’ che Thomas Piketty e altri economisti hanno rilevato nel loro ultimo studio, un’impietosa istantanea sulla solitudine della Bildungsbürgertum più ‘urbana’ e socialdemocratica.
L’impulso alla metamorfosi, al superamento di vecchi modi d’intendere la società inciampa insomma quando alla libertà si vuole affiancare l’uguaglianza: vuoi perché a quel punto si perde l’appoggio liberale, vuoi perché una parte dell’elettorato si sente cornuta e mazziata dalla ‘terza via’ imboccata per trent’anni dalla sinistra, e ora gira le spalle anche alle proposte più socialdemocratiche. È un matrimonio, questo sì, ancora tutto da ricucire.