Stasera al Palazzo dei Congressi di Muralto, con Renato Martinoni, Tania Pedroni e Giona A. Nazzaro
Quando il 9 agosto del 1917 la Confederazione lo rifila a Gualtieri (Reggio Emilia, luogo d’origine del padre), Antonio Costa, poi Antonio Laccabue, infine Antonio Ligabue, è un uomo ‘socialmente pericoloso’. Già segnato dai problemi di salute, dai lutti della famiglia originaria, dalle disagiate condizioni economico-culturali di quella adottiva, il pittore e scultore italiano conduce una vita ai margini, fino al definitivo riconoscimento artistico. In Italia, il grande pubblico lo scopre nel 1977 con l’omonimo sceneggiato di Salvatore Nocita, per riscoprirlo più tardi in ‘Volevo nascondermi’ di Giorgio Diritti, regista di un film in cui Ligabue è Elio Germano, Orso d’argento per il miglior attore a Berlino 2020 e David di Donatello 2021 all’attore, al regista e al film (e altro ancora).
In ‘Antonio Ligabue fra cinema e romanzo’, stasera al Palazzo dei Congressi di Muralto per il FestivaLLibro delle diversità, s’incontrano: Renato Martinoni, autore di ‘La campana di Marbach. Antonio Ligabue. Romanzo dell’artista da giovane’; Tania Pedroni, sceneggiatrice di ‘Volevo nascondermi’; Giona A. Nazzaro, direttore artistico del Locarno Film Festival. In apertura, ‘Lo specchio, la tigre e la pianura’ di Raffaele Andreassi (1960), prezioso documento restaurato dalla Fondazione Cineteca di Bologna; a chiudere, proprio ‘Volevo nascondermi’. FestivaLLibro, che domani ospita Dacia Maraini, si chiude domenica.
Ti-Press
Renato Martinoni
Prof. Martinoni: quando e come si è avvicinato alla figura di Antonio Ligabue?
Arrivato a San Gallo, una trentina di anni fa, ho subito cercato testimonianze della cultura italiana nella Svizzera orientale e mi sono imbattuto fra l’altro in Ligabue, una figura già mitica in Italia grazie anche a un film della Rai che ha avuto un enorme successo verso la fine degli anni Settanta del Novecento. Il pittore è nato a Zurigo nel 1899, figlio di un’emigrante italiana. Abbandonato a sé stesso, allevato da una famiglia germanofona, cresce tra mille difficoltà. Tanto che viene espulso, a vent’anni, perché considerato socialmente pericoloso. Arriva in Italia senza sapere una sola parola di italiano. Tutti lo deridono, lo chiamano ‘il tedesco’, lui vive sugli argini del Po mangiando bestie morte. Per tutti è un vero mostro. Verso la fine degli anni Venti comincerà poi a dipingere: animali, autoritratti e paesaggi che spesso ricordano da vicino i luoghi svizzeri in cui è cresciuto e di cui continua ad avere una forte malinconia.
Qual è lo scopo dell’incontro?
Da un lato il tema conduttore della manifestazione è quello della "diversità" e in questo senso la figura del pittore "matto" ed emarginato mi è sembrata esemplare. Poi nel 2020 è uscito un bellissimo film, ‘Volevo nascondermi’, di Giorgio Diritti, magistralmente interpretato da Elio Germano, che verrà proiettato dopo l’incontro. Mi è sembrato interessante riflettere sul passaggio dal Ligabue ‘uomo’ al Ligabue ‘personaggio’, tanto nel film (ne parlerà Tania Pedroni, l’autrice della sceneggiatura) e nel romanzo.
"La radice del suo cromatico espressionismo non va cercata nella parte italiana della vita dell’artista, ma nella sua formazione nordica", scrive Pietro Gibellini sul Corriere della Sera facendo riferimento ai suoi due libri. Perché c’è un Ligabue svizzero della cui storia lei si è occupato a fondo: vuole riassumerci questa ‘importanza nordica’?
Gli anni della formazione, per un ragazzo difficile e problematico, sono stati fondamentali e questo perché non è vero che Ligabue è cresciuto in un paese chiuso e bigotto. A scuola, grazie agli sviluppi della pedagogia curativa, ha appreso molte cose. Ha imparato a usare l’arte come strumento terapeutico. Non ci sono miracoli, pertanto, nella sua vita di pittore. È assai più un maledetto che un primitivo.
La follia è parte del racconto del pittore, spesso nell’accezione più ‘romantica’. Ma lei rivendica anche l’importanza del Ligabue ‘cosciente di sé’…
Sì, perché occorre sfatare l’idea dell’artista nato dal niente, quasi per un miracolo. Non a caso la critica d’arte più attuale e intelligente ha voluto giustamente togliere Ligabue da un’aurea romantica per metterlo nel posto che gli compete. Quello di un pittore di livello internazionale, che sapeva quel che faceva.
Se in ‘Antonio Ligabue. Gli anni della formazione (1899-1919)’ (Marsilio, 2019) il suo intento è biografico e documentario, ‘La campana di Marbach. Antonio Ligabue. Romanzo dell’artista da giovane’ (Guanda, 2021), lo dice il titolo, è un romanzo. Ci dica di questa ‘fiaba lirica’, così come l’ha definita Dacia Maraini.
Lavorando sul ‘vero’ Ligabue, quello dell’infanzia e della giovinezza, mi è venuta voglia di riflettere sul personaggio, la sua storia, quella della sua famiglia, i luoghi in cui è vissuto, il suo bisogno di amore. Poi la fantasia ha preso il sopravvento, tanto ricca di pathos era la vicenda. Il romanzo è narrazione, sì, ma può essere anche dialogo continuo con la realtà. Detto questo, mi ha molto affascinato la storia della madre del pittore, emigrata dalle Dolomiti, un luogo pieno di fiabe e di magie. Da questo aspetto della cultura popolare, comune a tutte le nostre montagne, ho tratto quel tono lirico e fiabesco che in certo momenti trasforma il pittore in un personaggio a metà fra la realtà e la fantasia.
La televisione prima, il cinema poi, quel ‘Volevo nascondermi’ che vedremo stasera: dove sta il fascino di Ligabue?
Credo che ad affascinare sia, da un lato, la grande qualità dell’arte di Ligabue (accanto ai dipinti non vanno dimenticate le sculture, i disegni, le incisioni); dall’altro, la sua figura oramai tanto popolare da essere diventata "mitica", drammatica com’è, nella povertà e negli accessi di follia. Non da ultimo anche le contraddizioni della sua vita: l’uomo miserabile che vive nelle capanne diventerà proprietario di dodici moto Guzzi e di due automobili, con tanto di autista. Eppure muore all’asilo dei poveri del suo paese. Se poi pensiamo che, quando viveva, i suoi quadri venivano usati a volte per tappare le finestre delle stalle, prive di vetri, e oggi valgono anche centinaia di migliaia di franchi, la storia da sola diventa quasi una fiaba.
foto: Azzurra Primavera
Tania Pedroni
«Ho avuto occasione di riavvicinarmi alla sua figura quando Giorgio Diritti mi ha chiesto di scrivere con lui il film. È stata un’immersione totale nella vita e nella figura di Antonio Ligabue fatta di tantissima ricerca, del leggere ciò che su di lui è stato scritto, dell’incontrare testimoni ancora in vita. E quadri da guardare, e tutto quel che sempre accade quando si fa ricerca a tutto campo. Per poi, partendo da un personaggio realmente esistito sul quale farsi un’idea il più approfondita possibile, immaginare, essendo il nostro un lavoro di fantasia, senza alcuna pretesa di ricostruire una figura storica». Così è nata la sceneggiatura di ‘Volevo nascondermi’, scritta da Tania Pedroni insieme a Giorgio Diritti. «Nel mio caso – ci racconta – è stato un ritorno al Ligabue incontrato da bambina, essendo io nata e cresciuta nella Bassa Reggiana, quella parte d’Italia in cui lui fu mandato una volta espulso dalla Svizzera. La mia famiglia di origine ancora ci vive, lì ho fatto le scuole. Il mio maestro delle elementari amava molto Ligabue, ce ne parlava, ci portava a vedere i suoi quadri. Questa parte d’immaginario che un po’ si era sopita, lavorando al film è riemersa».
Prima di sceneggiare ‘Volevo nascondermi’ – ma anche ‘Un giorno devi andare’ e ‘L’uomo che verrà’, sempre con Giorgio Diritti – Tania Pedroni è stata la bambina davanti alla tv che tra il novembre e il dicembre del 1977 guardava il ‘Ligabue’ di Salvatore Nocita, con il compianto Flavio Bucci nei panni del pittore: «Ero piccola, mi colpì molto. Negli anni 70 gli sceneggiati erano l’equivalente di certe serie di successo che oggi ottengono visibilità planetaria. Però, chiamata a riaccostarmi alla figura di Ligabue, ho scoperto di avere sensazioni più che ricordi precisi di quel lavoro. D’accordo con Giorgio (Diritti, ndr), per tutta la scrittura del film abbiamo deciso di non rivederlo, per non farci influenzare. Lo abbiamo rivisto a film scritto, per assicurarci che non vi fossero sovrapposizioni o che, involontariamente, non ne fossimo stati condizionati. Dopodiché ci siamo accorti, parlando con le persone del posto, che quello sceneggiato era talmente radicato nella memoria collettiva che qualcuno ci raccontava episodi che non erano di Antonio, ma soltanto dello sceneggiato».
Il ‘Ligabue’ di Nocita, in quell’antica tv fatta di piccoli passi avanti, raccontava la follia in prima serata. Una novità. «Ma la pazzia non è l’elemento che più mi ha colpito di Antonio, riaccostandolo, reinventandolo e riappropriandomene. È la sua figura in generale. Di Antonio – continua Pedroni – mi ha colpito la solitudine, il suo vivere ai margini, il bisogno di essere accettato per quello che era nel profondo senza ricorrere a compromessi, un bisogno d’amore a volte nascosto o negato, ma profondissimo. Il suo essere ‘altro’ ha richiamato l’altro di me, dimostrandomi quanto mi chiami in causa». Quanto alla pazzia, «abbiamo consultato la cartella clinica del manicomio di San Lazzaro a Reggio Emilia in cui Ligabue fu ricoverato, e la diagnosi non era quella. Ovviamente aveva disturbi e ritardi, ma non era un pazzo. Piuttosto, ho avuto l’impressione che fosse una persona connessa con l’aldilà, con un mondo degli spiriti incarnato in quella natura così potente, selvaggia, primordiale. Canali così forti, se confrontati a una mente labile, da farlo sembrare strano. Oggi, pensare a lui come a un matto è molto riduttivo e può solo fare comodo se non si vuole approcciare la complessità che gli compete. La pazzia è spesso uno di quei segni facili con i quali ci rassicuriamo quando ci dobbiamo rassegnare al fatto che le cose non sono rassicuranti».
"Lui diceva sempre: ‘Un giorno faranno un film su di me’". Parole di Elio Germano a Berlino, Orso d’argento nella mano destra. "Dedico questo premio a tutti gli storti, a tutti gli sbagliati, a tutti i fuori casta". In ‘Volevo nascondermi’, Germano si aggiunge al Ligabue che per 43 anni, in quell’immaginario collettivo sondato da Pedroni, ha avuto il volto di Flavio Bucci. «Quel ruolo lo ha un po’ imprigionato ed è un peccato», commenta Pedroni parlando dell’attore scomparso nel febbraio del 2020 dopo una vita almeno ‘fuori casta’: «Bucci è stato un attore di grandissima qualità, che ha lavorato con i grandi registi del cinema e del teatro e ha fatto cose meravigliose. Dispiace si pensi sia stato soltanto Ligabue, perché è stato molto altro».
Così come l’attore entra nella parte e diventa tutt’uno col personaggio, non di meno la comunione può riguardare una sceneggiatrice: «Certamente, ad Antonio penso ancora tanto», conclude Pedroni. «La sua presenza è meno intensa rispetto a tutto il tempo dedicatogli durante la scrittura e la realizzazione, ma è un pensiero che ancora c’è, molto tenero, costante. Quel suo sguardo mi richiama a un senso di responsabilità, mi spinge a chiedermi come, a quel tempo, mi sarei approcciata a una figura come la sua, quanto sarei riuscita ad andare con lo sguardo oltre l’apparenza, e quanto invece questa capacità mi è richiesta adesso, quanto sono capace oggi di essere all’altezza di quello sguardo».