Il fronte filo cubano preferisce lo stereotipo rassicurante, perché non accetta la constatazione che da decenni in quell’isola la popolazione aspira ad altro
Emanuele Fiano, che ha sempre anteposto il rispetto della verità ai prêt-à-porter ideologici, non usa mezzi termini: “Il regime cubano va fermato, dobbiamo protestare nello stesso modo verso ogni insulto alla libertà ad ogni latitudine”. Il deputato del Partito Democratico sposa di fatto le posizioni scomode (a sinistra) di Pietro Ingrao, figura storia del Partito Comunista (Pci) che denunciò i processi farsa e la “dittatura castrista”. Il fronte filocubano insorge (giustamente) contro l’asfissiante embargo americano che per 60 anni e più duramente da un quarto di secolo, penalizza lo sviluppo dell’isola caraibica. Non v’è dubbio che il “bloqueo” sia una micidiale pietra al collo per l’Avana e che spieghi in parte il collasso del Paese. Ma la stessa tifoseria, abbagliata da un Paese che sarebbe rimasto puro, intonso, guardiano di una rivoluzione congelata nella storia, con l’occhio che ricorda quello del turista con tanto di collanina di conchiglie, camicia hawaiana, davanti alla tribù primitiva, preferisce lo stereotipo rassicurante, perché proprio da tifoseria non accetta la sconfessione e cioè la constatazione che da decenni in quell’isola la popolazione aspira ad altro: al benessere certo, ma anche alla libertà di pensiero, alla democrazia, al multipartitismo, retaggio a cui nessuno di noi sarebbe disposto a rinunciare.
L’epidemia di Covid (con i tassi di contagio più alti dell’America Latina secondo la Bbc) è giunta come una doccia ghiacciata, sovrapponendosi a una politica economica, sociale e sanitaria da anni calamitosa come evidenzia un’analisi tra le più articolate a firma della cubana Jessica Dominguez Delgado (la si trova nel sito del Movimento per il Socialismo, Mps).
C’è naturalmente chi pensa che la libertà, così come i diritti umani, sia un lusso del “capitalismo ultraliberista”. Lenin aveva battezzato “utili idioti” quanti in Occidente sostenevano acriticamente l’Urss; oggi l’epiteto si adatterebbe perfettamente agli orfani dello stalinismo pronti ad accendere un cero anche sotto la gigantografia di Kim Jong Un. L’insospettabile Thomas Piketty, altermondialista tra i più autorevoli, scrive che è ora di finirla di essere solo “contro” il capitalismo o il neoliberismo: il socialismo – scrive – “morirà se non sarà partecipativo, democratico, ecologico, decentralizzato e femminista”. Il fantasma della libertà, l’anelito di democrazia, la voglia di emancipazione sociale e individuale hanno contrassegnato la nostra storia sin dalla Rivoluzione Francese. Un processo lungo, complesso, irto di ostacoli e retromarce, a cui non aspirano solo i cubani; lo chiedono gli arabi con le loro primavere, i curdi sotto la scure islamista di Erdogan o molti afghani e soprattutto afghane con la loro commovente e disperata resistenza.
Il politologo Françis Fukuyama aveva erroneamente previsto in un celebre testo risalente al 1992 l’imminente convergenza della storia umana nel modello di democrazia liberale (nelle sue forme più o meno marcatamente socialdemocratiche). Si era sbagliato. Ma forse non totalmente. Perché – come ci aveva lui stesso spiegato – il flusso delle migrazioni potrebbe riflettere quello della storia: si dirige sì verso gli Stati più ricchi e sociali, ma significativamente evita i regimi, privilegia le democrazie.