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Donne che subiscono e stanno zitte, siamo tutti responsabili

Avere più ‘sentinelle’ sul territorio e coraggio civico in un Paese dove ogni due settimane una donna viene uccisa tra le mura domestiche.

3 aprile 2021
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Ogni donna aggredita o uccisa da compagni, mariti, amanti, ex è una sconfitta per l’intera società. Domenica scorsa, lungo le rive del Ticino a Carasso, un uomo ha scelto la furia omicida per imporre il suo potere  (‘O sei mia o di nessun altro’), ha freddato la sua ex e si è tolto la vita, lasciando due bambini orfani. È una morte che chiama in causa tutti. Come quella di un anno fa, a Giubiasco, dove un uomo sparò all’ex moglie e al nuovo compagno in un bar di piazza grande, poi si uccise. Anche questa morte ci riguarda tutti. Come società, in entrambi i casi siamo stati incapaci di proteggere due donne.
Perseguitata dal suo ex, terrorizzata dalle sue minacce, la madre appena uccisa non sembra avesse chiesto aiuto alle autorità, non sembra l'abbia fatto qualcuno del suo entourage; in caso contrario, la protezione non ha funzionato. Comunque sia andata il sistema ha fallito. In simili casi, il quieto vivere non può esistere. Certo, non è facile immischiarsi nelle faccende altrui ed è difficile capire cosa succede dentro le famiglie altrui. Ma in tali casi, riteniamo, non deve prevalere la prudenza, ma una scintilla di coraggio civico che porti alla segnalazione dei sospetti a polizia, magistratura, enti di aiuto. Saranno poi loro, con gli strumenti di cui dispongono, a verificare se e come intervenire. 

Va insomma rafforzata la rete di sentinelle, chiamiamola così; potenzialmente lo siamo tutti, ‘sentinelle’ ma in primis devono esserlo i punti di primo contatto con le vittime, decisivi per individuare il maltrattamento e la sua successiva sanzione (ad esempio in ambito sanitario, ma anche giudiziario). Chi subisce deve sapere a chi rivolgersi, sentirsi accolto, mai sminuito da chi eventualmente minimizza! 

Le cifre sono drammatiche in Svizzera, dove ogni due settimane una donna viene uccisa tra le mura domestiche. In Ticino, la polizia interviene in media ben tre volte al giorno. Purtroppo il quadro (ahimé!) non è completo, perché tante subiscono e stanno zitte, forse perché non vedono vie di uscita.  E quanti minori assistono impotenti e rischiano di assorbire una cultura della violenza che li segnerà per la vita, trasformandoli, magari, in adulti che menano le mani? 

Gli effetti a cascata sono enormi. Infatti Confederazione e Cantoni sono corsi ai ripari, Berna ha deciso di potenziare lo scorso anno le misure contro la violenza sulle donne. Il Ticino da un anno ha una nuova figura (ricoperta da Chiara Orelli Vassere) di coordinatrice istituzionale per la violenza domestica al Dipartimento delle istituzioni. Si sta mappando la problematica per capirne diffusione, bisogni e lacune, così da elaborare un piano di azione cantonale per l’autunno. 

Qualche passo è stato fatto, ad esempio, si inizia a curare gli aggressori. Grazie a nuove disposizioni del Codice penale svizzero il procuratore pubblico può ordinare – sospendendo il procedimento per 6 mesi – la partecipazione dell’imputato (in caso di lesioni semplici, minacce) ad un programma terapeutico. In Ticino siamo agli inizi, mentre in Italia da 11 anni si aiuta l’aggressore (sia perché lo decide un giudice sia perché lo decide il diretto interessato) a riconoscere e modificare i suoi comportamenti violenti. Il responsabile di questi centri per uomini maltrattanti sul giornale spiega che la violenza non è una malattia, ma una scelta. Insegnando a gestire la rabbia, la violenza fisica cala. Loro vivono meglio e creano meno sofferenza e morti. Se lasciati soli, questi uomini non ce la fanno. 

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