Commento

Passava di là, in un rifugio di pace

Per Erminio Ferrari la letteratura, come la montagna, era un bisogno; profondo, fisico, viscerale. In quegli spazi protetti, discosti, sottratti alle isterie e alle bassezze della quotidianità

18 ottobre 2020
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Una volta ripresomi dallo schiaffo della notizia, me ne sono reso conto. Pochi minuti prima, mentre leggevo il suo editoriale, lui non c’era già più. Le sue parole, dispensate con la consueta lucidità e misura, iniziavano a sopravvivergli.

Nel gorgo delle distrazioni in cui ci troviamo regolarmente risucchiati, accade che sia proprio il momento della perdita, improvvisa e lacerante, a rivelarci il valore, il ruolo che, in noi, ha rivestito chi non c’è più. In quel momento, insieme alle lacrime, mi si sono ripresentati, vividi e concreti, i dieci anni di vita condivisi con Erminio Ferrari, una buona parte dei quali trascorsi attorno alla sua scrivania, a cercare di assorbire le cose buone di quella professione che lui ha sempre interpretato splendidamente.

Per chiunque abbia vissuto la Regione da dentro, non è possibile immaginare quel posto vuoto in redazione. Erminio era lo scoglio dove cercare un appiglio sicuro, nelle giornate troppo lunghe, quando il livello dell’acqua sale e s’insinua il timore di non restare a galla. Un punto fermo professionale, intellettuale e umano, capace di dispensare un affetto ruvido, discreto, quanto mai sincero. Erminio è la presenza amica che s’immagina sempre lì, al suo posto, perfettamente ordinato, perché non si arriva a pensare di non poterci contare più.

Spesso, nei giorni più luminosi, poteva comparirti davanti all’improvviso, condotto da quel suo passo leggero, così, solo per una parola, una pacca sulla spalla, quel sorriso candido percorso d’ironia complice. Oppure, a tarda sera, divertendosi ad apostrofarti col nomignolo che ti aveva assegnato, per un «caz… fai ancora qui?!, hai gente a casa che ti aspetta». Poi, il passaggio sul suo fuoristrada col cassone ingombro di attrezzi, nella notte inconsapevole della strana vita dei giornalisti; non prima di averti fatto attraversare al buio i corridoi della tipografia, anche dopo che la rotativa si era ormai fermata per sempre, e non c’era più la magia della copia tiepida appena stampata a condurti fin lì, e laggiù era solo silenzio.

Ma anche a Erminio, pur col suo candore, capitava di ritrovarsi avvolto da ombre troppo fitte. Lui, però, a differenza dei più, dediti alle molteplici fughe che caratterizzano il nostro tempo, le sapeva osservare, con coraggio e la stessa lucidità che metteva nel suo lavoro. Poi, forse per diradarle, quelle ombre partorite dalla quotidianità, che inevitabilmente assediano gli animi più sensibili e più vulnerabili, aveva quelli che con il tempo ho iniziato a immaginare come i suoi rifugi di purezza: la montagna e la letteratura, soprattutto. Che cosa trovare in fondo, nello smarrimento fra le pagine di un libro, nella fatica che porta a “vedere un po’ più in là” (avrebbe detto lui), se non uno spazio di vita, pura e autentica, al disopra delle miserie del reale? Grazie al quale riconsiderare, e forse accettare, le bassezze, i compromessi, le ferite?  

Erminio era ben più di ciò che s’intende per “lettore forte”. Lui, con la consueta autoironia, avrebbe preferito “tossico”. Così si definiva, dicendo di non ricordare niente di ciò che leggeva, spinto com’era dal bisogno d’iniziare un nuovo libro non appena il precedente era terminato, come di ritornare in alto non appena era disceso in pianura. Intanto, però, dispensava titoli, con l’acume e la sensibilità di chi sa puntare lo sguardo al cuore della buona letteratura.

Ritornano così le sue parole, quelle dei suoi libri, in cui i suoi due rifugi si sono incontrati; senza retorica, con la stessa forza di sguardo che sa trascendere il dato di realtà, per vedere oltre. Come nel suo ‘Passavano di là’, nel suo genere un piccolo capolavoro che merita di essere letto, o riletto. Nella parabola del vecchio Meco, che porta su di sé le cicatrici del tempo, le nostre creste di confine, i sentieri che furono di partigiani e contrabbandieri, si svuotano delle risonanze di qualsivoglia gesto epico, per ritrovarsi percorsi da disperati che non sanno nemmeno dove si trovano, e non possono più andare né avanti né indietro. In queste pagine ogni parola è pietra, consapevole del proprio senso e della propria consistenza: “Da fuori veniva un vibrare dell’aria. E colpi di vento su suoni remoti. Prolungavano un’attesa senza termini, staccata dal tempo, rivolta a niente. Forse a una fine”.

Ma forse c’era del vero anche nell’ironia di Erminio. Per lui, la letteratura, come la montagna, era un bisogno; profondo, fisico, viscerale. In quegli spazi protetti, discosti, sottratti alle isterie e alle bassezze della quotidianità, grazie ai quali “vedere più in là”, in quei rifugi di purezza si consumava tutto il suo feroce amore per la vita. Tutti dovremmo averne uno. Per nulla al mondo lui vi avrebbe rinunciato, neanche per il timore di precipitare; fra le pagine di un libro, come fra due pareti di roccia protese verso l’infinito.

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