La strage sventata alla Commercio deve farci riflettere non solo su come sia facile perdere la testa, ma anche su quanto lo sia armarsi fino ai denti
Che gran fregatura che è tante volte, la nostra mente. Fin da piccoli ce l’hanno venduta come il coltellino svizzero che avrebbe scassinato ogni segreto, il passepartout per diventare tutto quello che volevamo: astronauti, scienziati, calciatori, supereroi. “Basta crederci”, ci dicevano modelli troppo grandi per essere veri – per essere vivi – con un bel sorriso fluorescente da pubblicità del dentifricio. Giovani e ingenui, un po’ tutti abbiamo passato anni senza leggere le condizioni d’uso, quel corsivo minuscolo vergato in calce al contratto: aspettatevi delusioni, a volte va male, la direzione declina ogni responsabilità per le cadute e non garantisce che sappiate rialzarvi. Con un risultato frequente e paradossale, educati come siamo al “basta volerlo”: l’incolparsi ossessivamente per ogni inciampo, col rischio di degenerare in una vita di rimproveri, in una convivenza spossante con un Super-io ingrugnito.
Quello che parrebbe capitato all’imputato per la sventata strage alla Commercio di Bellinzona. Che dovendo commentare l’ennesima delusione, tra apprendistati persi e amori respinti, ha rivelato l’odio di sé che lo spingeva usando l’unica parolaccia di un processo nel quale si è sempre mostrato educatissimo: «Mi ha fatto sentire – mi scusi se cado nella volgarità – veramente una merda». Capita a tutti, sarà poi facile contestare. Non tutti, però, possono permettersi il privilegio di scrivere certe cose in allegretto, di coricarsi senza la compagnia ingombrante di certi fantasmi: il suicidio, l’omicidio, l’autolesionismo. Sarà per quello che viene facile provare una certa empatia, chiedersi come mai quella faccia gentile sia andata a infilarsi in una storia così tremenda. Cosa può spingere fino a lì, cosa distingue un giovane tormentato da un attentatore?
Lasciamo da parte per un attimo la psicanalisi da bar: la differenza la fa (anche) qualcosa di molto concreto. Non certi labirinti interiori né i modi in cui bene o male cerchiamo di uscirne, non la società e i valori – signora mia! –, e neppure chissà quale innata violenza. La differenza la fa un accesso alle armi troppo facile, perché non è possibile che un diciottenne possa accumulare nella sua cameretta un arsenale buono per invaderci il Liechtenstein, come se fosse solo una cassa di birra e in modo perfettamente regolare. Leggo dall’inventario allegato all’atto d’accusa: “Una pistola Sig Sauer con caricatore, una carabina semiautomatica Smith & Wesson con 8 caricatori, un fucile a pompa Maverick, un fucile a canne giustapposte Sauer & Sohn, due carabine semiautomatiche con 4 caricatori, una carabina monocolpo Anschütz”. E siamo solo alla sesta di trentaquattro righe. Il resto è fatto di parole sentite spesso nel corso dell’istruttoria: Kalashnikov, Ar-15, pugnali, baionette, un giubbotto antiproiettile, oltre tremila cartucce.
Di quanto in Svizzera sia facile procurarsi perfino armi che nulla hanno a che vedere neppure con la caccia bisognerà parlare seriamente, una volta esaurite le curiosità e i voyeurismi dovuti a un processo con pochi precedenti. Dopo l’arresto del giovane, la risposta alle sacrosante domande del legislativo è sempre stata che per carità, va tutto bene, siamo già abbastanza severi. Questo caso – che poi non è solo un ‘caso’, ma una persona alla quale si deve augurare tutto il meglio – dimostra che non è affatto così. E se la mente è quello che è, dovremo pur sempre cercare di tenerla lontana dal grilletto.