I fatti della Commercio riaccendono la discussione sulla diffusione di pistole e fucili. Per Norman Gobbi leggi e controlli sono severi, altri chiedono di più
Aveva una montagna d’armi in casa, il 21enne condannato una decina di giorni fa per la sventata strage del 2018 alla Commercio di Bellinzona. Kalashnikov, Smith & Wesson, fucili a pompa e a canne, pistole, baionette, pugnali: l’inventario della Polizia scientifica riempie una pagina intera dell’atto d’accusa. Viene da chiedersi come mai il ragazzo – che all’epoca dei fatti era maggiorenne da poco più di un anno – sia riuscito ad accumulare un tale arsenale, e perché ci si sia accorti del pericolo soltanto a pochi giorni dall’assalto, nonostante le armi fossero regolarmente registrate. Non sarà che i controlli sono troppo laschi, la legge – di competenza federale – troppo permissiva? Il Direttore del Dipartimento delle istituzioni Norman Gobbi invita anzitutto a non generalizzare: «Va ricordato che la stragrande maggioranza dei detentori di armi non costituisce alcun problema.
«Una cosa che invece si può e si deve fare è anticipare certe situazioni. Ciò accade già, grazie all’attento lavoro di verifica dei requisiti prima del rilascio di un permesso d’acquisto, come pure al monitoraggio preventivo. La Polizia cantonale collabora intensamente con quella federale, anche in prima linea con il servizio Armi, esplosivi e sicurezza privata». E poi c’è «lo speciale gruppo di prevenzione e negoziazione per le persone pericolose, che in questo caso ha poi intercettato il ragazzo». Insomma: i controlli si fanno, e sarebbero già capillari.
Se però non fosse stato per le segnalazioni di compagni e insegnanti, c’è da temere che nel caso di Bellinzona la polizia non si sarebbe accorta di nulla: non sarebbe meglio fare ancora più verifiche preventive su chiunque abbia armi in casa, specie quando i meccanismi di accumulazione sono così pronunciati? Gobbi ricorda che il diritto svizzero «prevede che si possa agire quando ci sono indizi che segnalano una certa pericolosità. Ma la Legge federale non permette di presupporre che la quantità di armi detenute basti a identificare una persona come potenzialmente pericolosa. D’altronde la legge stessa ha preservato, anche dopo le ultime modifiche per adattarsi al diritto europeo, il principio secondo il quale la detenzione di armi da parte di un cittadino privato è un diritto: non si può dunque pretendere d'imporgli una specie di presunzione di colpevolezza». Né sarebbe proporzionata l’imposizione di deposito delle armi lontano dal domicilio, per evitarne l’uso impulsivo: «I detentori di armi sono normalmente persone corrette e responsabili, già tenute a rispettare severe norme di sicurezza. La legge deve lottare contro gli abusi, non disarmare cittadini già sensibilizzati e istruiti in materia, in primis dall’esercito di milizia e dall’impegno delle società di tiro e di caccia; cittadini che condividono la lunga e pacifica tradizione svizzera legata al possesso di armi».
Non necessariamente, poi, «la quantità e la tipologia di armi regolarmente registrate basterebbero a indicare la pericolosità di qualcuno, anzi. Le recenti modifiche di legge sulle armi semiautomatiche erano volte a contrastare il terrorismo, ma abbiamo visto che ora è spesso all’arma bianca che si realizzano attentati, e in ogni caso sfuggono alle normative le armi illegali acquistate al mercato nero». Armi difficili da intercettare, che oggi trovano un canale speciale di diffusione su internet: «In questo caso serve anzitutto l’attività d’intelligence», nota Gobbi. «Fondamentale è anche il controllo alle frontiere sulle spedizioni in entrata, che compete all’amministrazione federale delle dogane. Ma è chiaro che il boom dell’e-commerce rende difficile controllare tutto a tappeto: spesso ci si limita a controlli a campione».
In ogni caso – questa la conclusione del Consigliere di Stato – «le leggi sono già sufficientemente restrittive, specie dopo le modifiche avvenute l’anno scorso, che impongono ulteriori limitazioni e divieti per il possesso delle armi giudicate più pericolose, e hanno introdotto ulteriori controlli burocratici». L’appello finale è semmai alla vigilanza del singolo cittadino: «Il ruolo svolto da studenti e insegnanti per sventare la strage ci dimostra che sul piano della sicurezza ciascuno di noi può essere decisivo: occorre ascoltare i campanelli d’allarme che fanno sospettare comportamenti violenti, non girarsi dall’altra parte se si viene a conoscenza di persone che manifestano problemi particolari. Io stesso avevo segnalato ai miei superiori un mio milite che mostrava indizi preoccupanti di instabilità psichica, in modo che ne venisse limitato l’accesso all’arma d’ordinanza. Occorre capire che non si tratta di delazione, ma di contribuire a risolvere una situazione potenzialmente pericolosa, con grande senso civico».
Il granconsigliere del Partito socialista Nicola Corti, forte anche della sua passata esperienza di procuratore pubblico, solleva invece qualche dubbio in più circa l’efficacia degli attuali sistemi di prevenzione. «Un caso come quello di Bellinzona spinge a domandarsi se i controlli siano sufficienti. Certo, essi vengono effettuati, ma perlopiù a un livello centralizzato a Bellinzona e secondo modalità prevalentemente amministrative. Bisognerebbe chiedersi se invece non sia auspicabile potenziare gli organici della polizia amministrativa per avviare una mappatura più capillare del territorio, con un numero maggiore di controlli e di colloqui con i possessori di armi. Quando ad esempio un 19enne accumula un arsenale come quello sequestrato nel caso della Commercio, forse già prima della segnalazione di comportamenti anomali e violenti – che già oggi fanno scattare controlli e sequestri cautelativi – bisognerebbe porsi due o tre domandine in più, e soprattutto andarle a porre all’interessato. Anche il controllo dell’idoneità psicologica andrebbe reso più frequente e diffuso». Gobbi però contesta le critiche: «La Polizia cantonale dispone del servizio specialistico citato, ma quest’ultimo collabora attivamente e costantemente con la gendarmeria e la polizia giudiziaria, garantendo così la necessaria capillarità. È inoltre la normativa federale a prevedere che i cantoni debbano istituire un ufficio cantonale».
D’altronde, Corti nota che è anzitutto la Legge federale a dettare certe condizioni quadro. «La Legge federale sulle armi mantiene ancora oggi quella che è una specificità elvetica, ovvero il diritto dichiarato di possedere armi da parte del privato cittadino. Normalmente, nei paesi occidentali si procede al contrario: di base il diritto al possesso delle armi è riconosciuto solo a forze dell’ordine e militari in servizio, per limitare il rischio che il cittadino – che potrà poi eventualmente ottenere speciali permessi ad esempio per la caccia – cada vittima di conflitti a fuoco. Riconoscendo invece il possesso come diritto di tutti, l’eccezione Svizzera facilita molto l’accesso alle armi. Né tale eccezione è andata persa con l’adeguamento al diritto europeo, come invece voleva far credere chi vi si opponeva».
Ciò detto, il granconsigliere vede con favore il recente allineamento alle norme dell’Unione europea: «L’adeguamento al diritto europeo introduce una maggiore attenzione al rilascio dei permessi per armi particolarmente pericolose come quelle semiautomatiche, al contrassegno delle componenti e allo scambio di informazioni tra stati». Inoltre in Svizzera «è stata importante anche la creazione di database centralizzati che permettono di avere sempre a disposizione tutti i dati sul possesso di armi».
4 marzo 1992, ore 19. La strage più vicina a noi, quella ‘di Rivera’. All’epoca fu il 37enne Erminio Criscione – trasformatosi in quello che gli americani definirebbero ‘door-to-door gunman’, assassino porta a porta – a scaricare un intero caricatore del suo kalashnikov contro una lista di persone che sognava di ‘punire’, ma anche contro chiunque gli si presentasse all'uscio: gente con la quale aveva litigato, colleghi di lavoro, un insegnante che lo aveva bocciato a un esame di management. Una strage compiuta con un fucile regolarmente acquistato a Zurigo. Origlio, Pregassona, Rivera e Massagno le sue tappe: sei le vittime, altrettanti i feriti, molti gravi. Una famiglia fu decimata, più d'uno i bambini coinvolti. Poi l'uomo si consegnò spontaneamente a un posto di blocco della polizia. Erano passate appena due ore dall'inizio della sparatoria itinerante. Non ci fu tempo per andare al fondo delle sue motivazioni: il 9 marzo Criscione si impiccò in una cella delle Pretoriali di Lugano.
Senza precedenti fu anche l’assalto al Gran consiglio di Zugo del 2001: il 27 settembre il 57enne Friedrich Leibacher, armato fino ai denti e camuffato da poliziotto, entrò in aula e uccise 11 deputati e 2 Consiglieri di Stato, per poi suicidarsi. 15 i feriti in una vendetta legata a problemi giudiziari, ma anche ai tormenti psicologici dell’attentatore. Dopo la strage, il 77% della popolazione svizzera disse di volere un inasprimento della legge sulle armi: un percorso giunto fino alla modifica approvata nel 2019 – e bocciata dal solo Ticino – che ha limitato l'accesso alle armi semiautomatiche, imposto la marcatura rigorosa di ogni componente e la condivisione dei dati sensibili all'interno dell'area Schengen.
Dal 1986 a oggi le sparatorie legate a conflitti sul lavoro, con le autorità o in famiglia hanno causato in Svizzera oltre 50 morti. Nell’ultimo periodo, solo in Ticino, si ricordano l’omicidio/femminicidio/suicidio dello scorso maggio e il femminicidio e tentato suicidio di Ascona del 2017.
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I NUMERI
Armati, ma 'pacifici'
Un paese con molte armi, ma relativamente poca violenza. Questa la Svizzera che emerge dalle analisi di Small Arms Survey (Sas), un progetto di ricerca indipendente presso il Graduate Institute (già Hei) di Ginevra. Con oltre due milioni e mezzo di armi possedute da privati, la Svizzera è al 16esimo posto nel mondo per quanto riguarda fucili e pistole ogni 100 abitanti: nel 2018 se ne contavano 27,6 (è probabile che in realtà sia un numero inferiore di cittadini a possedere più di un’arma). Il dato colloca la Confederazione al di sopra della Germania e della Francia (19,6) oltre che dell’Italia (14,4). Ci supera invece l’Austria, con 30 armi ogni 100 abitanti. Là davanti a tutti naturalmente ci sono gli Stati Uniti, con più armi che persone: 120,5 ogni 100 abitanti. Tuttavia il tasso di omicidio intenzionale in Svizzera – stando al dato Onu per il 2018 – è molto più basso di quello di paesi meno ‘armati’: 5,9 omicidi per milione di abitanti, mentre in cima alla classifica europea ci sono Francia e Regno Unito (12).